
Ve lo ricordate il vostro primo amore? Quanti anni avevate? Io avevo quasi 14 anni e lui qualche mese di più. Due mocciosi saputelli che si atteggiavano a grandi ma non ci capivano niente: col senno di poi, quello che mi ritorna in mente fa ridere. Ma fa anche tenerezza.
Tanto tempo fa, quando ancora non c’erano i cellulari, uscivi di casa e nessuno sapeva più niente di te né poteva rintracciarti. Io invece non uscivo mai e mia madre, per buttarmi fuori di casa, mi iscrisse agli scout di quartiere. Voleva vedere se c’era vita in me o ero solo un fagotto buttato sul letto intento ad ascoltare alla radio “Supersonic Dischi a Mach 2” e “Per voi giovani”.
Accadde però che gli scout di zona si divisero e una parte confluì in un reparto storico e prestigioso, il Roma 9. Io seguii i “confluenti” – per la gioia di mia madre che finalmente mi vide allontanarmi da casa. La prima sede che frequentai fu in Piazza di Spagna, nei locali sotterranei dell’esclusivo Collegio San Giuseppe de Merode; poi ci spostammo in Via Pompeo Magno, zona Prati, nei locali ancora più sotterranei (e tortuosi) della chiesa di San Gioacchino (dove, ironia della sorte, si erano sposati i miei nel 1943) che dividevamo con l’allora fondamentale Cineclub Tevere.
Nel reparto Roma 9, tra ragazzini figli di ricchi che frequentavano l’elitaria Villa Flaminia (scuola privata gestita da preti) piombammo, dalla periferia di Roma Nord, io e la mia amica Laura, figlie di proletari. Mio padre era un ex operaio elettricista promosso a impiegato in seguito a un terribile incidente sul lavoro di cui fu vittima, il padre di Laura faceva il barista. Ci trovammo in mezzo a questi figli di papà molto carini, molto educati, molto forniti di ville al Circeo e sterminati appartamenti con pianoforti e cameriere fisse. E il mio giovane cuore prese a battere per uno di questi ragazzi(ni).
Quant’era carino il mio primo lui! Alto alto, magro magro, capelli ricci, occhi scurissimi, era simpatico e un po’ svitato. Aveva un buon odore: lo so che gli adolescenti più che un odore emanano un sentore di capra di montagna, ma tant’è. Ci siamo messi insieme senza sapere cosa volesse dire.
Ho ricordi piccoli e belli. I primi baci durante un campo scout, così tanti che il giorno dopo avevo le labbra indolenzite. Mi sentivo molto vissuta (e un po’ ridicola). La prima volta che dormimmo vicini eravamo in tenda (ma con altre dieci persone) saldamente chiusi ognuno nel proprio sacco a pelo perchè si gelava. Ci toccavamo solo con i nasi. La mattina seguente scoprimmo che aveva nevicato e la tenda era sommersa dalla neve.
Facemmo insieme anche un campo di volontariato, in una casa di riposo per anziani. Di giorno svolgevamo i nostri compiti con i malandati ospiti che ci avrebbero volentieri tolto di mezzo a colpi di dentiere – stupidi ragazzini romani fastidiosi come moschini della frutta. Di notte i ragazzi venivano a bussare alle stanze delle ragazze. Non si faceva nulla oltre che chiacchiere, baci e carezze, ma ci sembrava di essere esperti amatori.
Con lui mi ricordo uno scambio di battute che già mostrava la mia estrema simpatia. Parlavamo del brano cantato da Herbert Pagani, “Albergo a ore”, un pezzo straziante su due ventenni che passano la loro prima (e ultima) notte insieme in una stanza d’albergo, dove si toglieranno la vita. “Io lavoro al bar di un albergo a ore/ porto su il caffè a chi fa l’amore…”, citai io. Lui sorridendo mi disse: “A noi però non ce l’hanno portato il caffè…”. E io, che già da allora non capivo le battute ironiche, risposi acida: “Ma noi non abbiamo fatto proprio niente”, a sottolineare la pochezza delle effusioni.
La mia prima love story finì in modo indolore, perchè due quattordicenni alla fine sono solo due ragazzini che devono, giustamente, assaggiare qua e là la vita per trovare, da grandi, la loro strada nel mondo. Lui si invaghì di una tipa carina e chic che entrò nel gruppo insieme ad altre amiche tutte provenienti dalla scuola privata più esclusiva di Roma, l’Istituto Nazareth, frequentata solo dalle rampolle della Roma-bene.
Io andavo al liceo Guido Castelnuovo. Dove il più tranquillo era di Lotta Continua.
Che bella questa storia, ci sono la delicatezza, i sogni, il trasporto tipici di quell’età. A volte la rimpiango, a volte preferisco tenermi stretti i miei quasi “Anta”
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