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Mamma mia che paura!

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Essendo io una fifona doc, paurosa in ogni occasione, tendente alla paralisi quando si presenta un pericolo che necessita di una reazione immediata, ho deciso di fare come nei film americani in cui il protagonista affronta le sue paure per vincerle. O almeno le racconta. Quindi ecco un elenco delle cose che mi hanno fatto paura. Ma ne mancano molte altre.

Le MUCCHE: siamo andati per diversi anni in vacanza in Valle d’Aosta, che è popolata da serafiche nonché bellissime mucche che passeggiano serene nei prati. Quando mi ci sono trovata faccia a faccia su un sentiero ho deglutito e mi sono immobilizzata. La mucca non mi filava proprio ma chissà che mi frullava in testa: sono indietreggiata lentamente come se avessi avuto davanti un tirannosauro e ho cercato di aggirare l’ostacolo. In seguito mi sono (quasi) convinta che le mucche sono (quasi) inoffensive, a meno che non le vedi scontrarsi (ma non si fanno niente) nella Battaglia delle Regine, dove sono davvero spaventose!

Il film “ALIEN”: L’ho visto al cinema Adriano quando ero ventenne quindi già grandina. Le disavventure di Ripley contro l’alieno brutto e bavoso mi hanno catturata subito, e ogni volta che il mostro attaccava facevo dei salti sulla poltrona che nemmeno Tamberi. Ho continuato a ad avere paura anche in macchina, quando siamo tornati a casa. Oggi il buon vecchio xenomorfo non mi spaventa (quasi) più. E continuo ad amare Sigourney.

L ‘escursione sul MAR ROSSO: Un sacco di anni fa, quando ancora non andava di moda, siamo andati a passare una settimana a Sharm El Sheik. Di italiani ce n’erano pochissimi e si stava una meraviglia. Stavo sempre in acqua a guardare i pesci ed ero così stupita che mi sembrava di essere una di loro, ma più cicciotta. Un giorno ci siamo imbarcati per fare una piccolo giro in mare e fare un tuffo al largo. Dunque ci tuffiamo dalla barca, ficchiamo il naso sott’acqua vedere i pesci e, quando torniamo su, la nostra barca non c’è più. Ci avevano dimenticati in mare! Lì ho creduto di morire, però almeno stavo nel Mar Rosso e sarebbe stata una morte bella rapida, visto che gli squali non si sarebbero fatti sfuggire due succulenti bocconi italiani. Nuotavamo lentamente per non stancarci ma intorno non vedevamo nessuno a cui chiedere aiuto! Dopo una mezz’ora, quando ormai Jack e Rose scansàteve proprio, abbiamo avvistato un’altra barca che trasportava turisti e ci siamo messi a strillare Help! Help! Ci hanno tirati su e io ho ringraziato Nettuno, Ariel e compagnia bella di averci salvato la pelle.

La funivia del MONTE ROSA: Io, Riccardo e le bassotte prendemmo la funivia per salire in cima al Monte Rosa. Era estate, faceva caldo anche in montagna, ma noi eravamo abbastanza coperti. Arrivammo in vetta, ammirammo il panorama avvolto in lievi nuvole grigie che rendevano il tutto ancora più incantevole. Eravamo quasi a 3000 metri. Sullo sfondo si stagliava la sagoma di uno stambecco, che ovviamente io scambiai per vero, ma era una statua in bronzo. Decidemmo di scendere perchè iniziavamo a sentire freddo ma la cabina era ferma. Erano le 13. Avevamo anche fame. non c’era nessuno in giro, Si affacciò un addetto agli impianti e ci disse che avrebbe riaperto solo alle 16,30 e non poteva assolutamente farci scendere giù. Dovevamo aspettare. Inoltre non c’era un posto interno dove potevamo ripararci, perchè lui doveva chiudere tutto. Avemmo dovuto trovarci un riparo fuori. E si stava anche alzando il vento. Ci sedemmo in terra sotto una grondaia, stretti uno sull’altro, due turisti romani scemi e due bassotte che tremavano. Ci avvoltolammo nelle giacche a vento tenendo i cani tra di noi. Ero certa che saremmo morti congelati in cima al Monte Rosa. Di noi avrebbero trovato solo due cadaveri grossi e due minuscoli completamente ghiacciati, tipo uomo di Similaun e i suoi bassotti. All’improvviso l’addetto all’impianto si mosse a compassione e ci chiamò: Andiamo, vi porto giù! Contravvenendo alle ferree regole dell’impianto, ci fece salire nella cabina e ci spedì giù a valle. Salvi!

I cani da pastore ABRUZZESI-MAREMMANI: Non avendo mai avuto paura di nessun tipo di cane, suona un po’ bizzarro che io abbia avuto paura di questi. Ma trovarseli davanti a protezione del loro gregge, che ti guardano come se tu fossi la feccia della feccia degli esseri viventi, a me ha fatto partire un brividino di strizza lungo la schiena. Eravamo in montagna, sul Terminillo, il deserto intorno tranne noi, le pecore e i cani da guardiania. Abbiamo indietreggiato molto lentamente, con la nostra bassotta Milla (quella prima di Holly e Spilla) in braccio, mentre loro ci fissavano con evidente disprezzo. Ero sicura che stessero guardando Milla, dicendo tra loro: “Per me è un gatto”, “Ma no, è un cane piccolo”, “Ma che dici, è una pulce grossa”, “E’ un’arvicola un po’ cresciuta”, mentre si chiedevano come sarebbe stata di sapore, magari con noi di contorno.

Spilla e l’ASCENSORE: Un paio di mesi fa ero entrata in ascensore con le bassotte. Le avevo portate a spasso e stavamo tornando a casa. Avevo spinto il bottone del 5° piano, le porte si erano chiuse lentamente e Spilla… era uscita fuori! Era legata al guinzaglio estensibile e non mi ero accorta che era schizzata fuori. L’ascensore saliva verso il 5° piano e il guinzaglio scorreva tra le porte, io andavo su e lei restava giù appesa al filo. Ebbi così paura che non riuscii a fare altro che gridare aiuto (invece di spingere il pulsante di blocco dell’ascensore). Mio marito recuperò la cagnolina scioccata che stava per fuggire dal portone del palazzo. Per fortuna la corda del guinzaglio si era spezzata con la forza della trazione e Spilla si era liberata, ma aveva fatto un volo di un paio di metri, tirata su dal guinzaglio lungo la porta dell’ascensore, fino a che il filo non si era rotto. La cagnolina rimase immobile sul divano per circa due ore, con gli occhi chiusi, a smaltire la paura. E io pure.

La mia DIAGNOSI: fu un oculista che conoscevo da anni a dirmi che il mio disturbo alla vista, l’uveite, aveva un motivo: una famigerata malattia autoimmune del sistema nervoso. In quel momento sentii la testa che mi scoppiava, il cuore che saliva in gola, la sensazione di fine immediata. La paura si presentò nel suo stato più puro e potente. Non avevo parole, sentivo solo un sapore di fine imminente e di disperazione. Lui mi rassicurò (ma credo si faccia sempre così) e mi spedì a fare la risonanza magnetica cerebrale. Girai come una trottola tra esami e consulti, poi trovai il neurologo che mi stabilizzò. Arrivarono altri oculisti (e la mia cara prof del Policlinico che mi cura ancora oggi e che mi tirò fuori dalla diplopia), un altro neurologo (svitato ma deciso, sono ancora con lui) e tante altre RM cerebrali-dorsali-spinali così lunghe che dentro il tubo ci prendo la residenza. Morale? Nella vita è meglio essere fatalisti che fifoni.

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Il tempo non sta a guardare

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E’ un periodo, questo, piuttosto scioccante. Scopro che persone della mia età, amici e conoscenti, si sono ammalate di cose dannatamente serie, roba da lasciarci le penne se non sei seguito e fortunato. Alcuni non lo sono stati e se ne sono andati senza nemmeno salutare. Mi guardo intorno e capisco che il tempo che passa sta iniziando a presentare il conto. E non significa solo ammalarsi, no. Vuol dire anche vedere gli amici che vanno in pensione, come quei signori che tanto tempo fa mi sembravano decrepiti e arrivati al capolinea quando si dichiaravano “pensionati”.

Quando li incontro non li riconosco più. Cerco sui loro visi le tracce di quella giovinezza che abbiamo vissuto insieme. Con lui ho fatto gli scout, con quell’altro ho studiato. con lei ho fatto un viaggio bellissimo, con l’altra ci siamo divertite come matte. E ora chi siete? Capelli bianchi, facce rugose, occhi stanchi, andature rallentate, corpi rinsecchiti o sformati. Mi guardo e vedo che anch’io sono così. Copro i segni sul viso con photoshop, mi piallo la pancia, allungo la figura. Ma chi voglio ingannare? Credo solo me stessa. Certo non puoi presentarti sui social con la tua vera faccia, altrimenti tutti penseranno “Madò come s’è invecchiata! Come s’è ridotta!”, ovvero quello che penso io quando vedo i miei coetanei.

I miei anni sono volati veramente in un attimo. E ho un bilancio miserrimo di un vita andata avanti per inerzia. Senza desideri, ambizioni, sfide. Non è un lamento, è un dato di fatto. E’ obiettività. Mi è successo tutto per caso, lo studio, la laurea (inutile), il lavoro nel Centro Studi che non sono riuscita a trasformare in un aggancio per l’università (sarei dovuta andare in missione in Perù o in Brasile ma, com’è nel mio stile, ho avuto paura), il lavoro a Cioè, arrivato dopo aver risposto per caso a un annuncio sul Messaggero. E poi vent’anni in quella redazione, senza nemmeno provare a cercare altre opportunità fuori – anzi, una l’ho avuta, quando la mia amica Patrizia mi chiamò nella redazione del suo programma di Rai 1, ma io come sempre ebbi paura e dopo un mese di Rai scappai via per tornare al giornale.

Il coraggio non è mai stato il mio forte. Nemmeno quando mi trovai, nel giro di due anni, senza padre e senza madre. Ero una trentenne fifona che si appoggiò al suo fidanzato, forte e solido, costretto a rinnegare le sue fragilità per darmi supporto e fiducia. Senza di lui io non ero niente. Provai anche a dargli un figlio, ma dentro di me ero spaventatissima e per nulla convinta. Poi la fine del lavoro, la mia malattia, l’aiuto della mia amica forever Stella che mi trascinò nell’avventura di Mengoni, alla quale partecipai con grande impegno.

Stella mi fece scordare che ero gonfia di cortisone per rintuzzare la malattia e mi fece sentire importante. Poi andai a lavorare da Silvia, amica di Stella e produttrice discografica. Per caso le serviva qualcuno per una nuova etichetta e mi prese con lei. C’era Carlo a capo di questa label e da lui imparai un sacco di cose, ma gli ruppi tanto i coglioni con la mia aria da saputella. Da uno che ha lavorato con i Depeche Mode avevo solo da imparare e muta. Poi quell’avventura musicale finì. Di nuovo senza lavoro. Per caso Andrea, un ex collega, mi chiamò per scrivere per i suoi giornali di gossip. Durò qualche tempo, poi persi anche quell’attività. E per caso arrivò il sito per cui scrivo ora. Fine.

In mezzo ci sono state storie, amori, concerti, canzoni, errori, vacanze, cani. Ma tutto incredibilmente leggero, effimero, volatile. Giorni veloci e anni rapidi. Di cui è rimasto poco. Ci sono persone che in sessant’anni di vita hanno fatto qualsiasi cosa, studi, viaggi, esperienze, figli, famiglie, posizioni professionali importanti, soddisfazioni a iosa. Quando me ne andrò, se c’è qualcuno dall’altra parte, mi chiederà perchè ho sprecato il mio tempo. E non so proprio cosa potrò rispondere.

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Quando c’erano i Take That

Nei miei tanti anni di Lavoratrice Fedele del Giornaletto delle Ragazzine c’era un argomento obbligatorio da mettere nel timone (coso di cartoncino che rappresentava le pagine del giornale): le boyband. Se gli anni 80 erano stati il territorio di gruppi iconici come Duran Duran e Spandau Ballet, formati da ragazzi belli ma musicisti veri (discorso a parte per gli Wham, duo in cui il bello e musicista era solo uno, l’immenso George Michael), gli anni ’90 videro il boom delle boyband, dii solito formati da cinque ragazzini di cui solo uno (e talvolta nemmeno uno) s’intendeva di musica.

Impattai subito con i New Kids On The Block, cinque ragazzetti americani molto carini messi insieme nell’85 da un astuto produttore, come tutte le boyband che seguiranno.

In redazione dovemmo imparare in fretta a distinguere i componenti delle boyband uno dall’altro (impresa titanica in cui eccelleva la mia collega Betta). Facevamo articoli in continuazione, copertine, poster, adesivi del retro-copertina, gadget zeppi di foto e aneddoti. La boyband che conquistò più cover in tutta la storia del Giornaletto fu quella dei Take That.

I Take That erano il baby (Mark), il dancer (Howard), il dancer numero 2 (Jason) il simpatico (Robbie), il musicista (Gary). Anno d’arrivo 1990. Età media 19 anni, inglesi di Manchester, bellissimi, erano spesso seminudi nei loro video che miravano ad esaltare la loro sensualità destinata a scombinare i quieti sonni di molte tredicenni.

Quando vennero in Italia per un live, io e Betta andammo a vederli con il distacco (finto) delle giornaliste che volevano indagare sul fenomeno per teen agers del momento. Dopo tre minuti che la band aveva iniziato lo show, Betta e io eravamo in piedi a ballare, saltare e strillare come tredicenni. E senza nemmeno vergognarci!

Un’altra boyband che conquistò le teen italiane fu quella dei Backstreet Boys, americani, nati nel 1993. Gran belle canzoni e video con numeri di ballo perfetti si univano a delle faccine molto gradevoli, soprattutto quella di Nick. Esistono ancora, come gran parte delle boyband anni 90, e sono rimasti più o meno uguali.

Sulle nostre copertine, impaginate dalla grafica Gloria, apparvero anche gli inglesi East 17 (1991), gli irlandesi Boyzone (1993), gli americani NSYNC (1995), i Five, inglesi e gli Hanson, americani (entrambi 1997), i Westlife (1999, irlandesi) e i Blue, inglesi (2001). Nello stesso anno arrivarono anche i tedeschi Tokio Hotel.

Insomma, avevamo di che riempire le copertine, inframmezzando i “carini” delle band ad altri soggetti attraenti e stuzzicanti: Leonardo DiCaprio abitò stabilmente sulle nostre cover.come pure Brad Pitt e Tom Cruise, ma anche attori di telefilm teen come Beverly Hills 90210, Dawson’s Creek.

E poi il World Wide Web ingoiò giornaletti, divi pop, teen idol.

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Qualcuno che mi manca davvero

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Ci sono alcune playlist su youtube che raccolgono canzoni italiane degli anni ’30 e ’40, come “Parlami d’amore Mariù”, “Mille lire al mese”, “Ma l’amore no”, “Voglio vivere così”, tutti brani che mia madre cantava. Era nata nel 1924, amava tutta la musica e adorava cantare, ma visto che spesso il suo umore non era dei migliori, aggiungeva il commento “Uccellino in gabbia, o canta per amor o canta per rabbia” sottolineando l’ultima parola.

Non penso quasi mai a lei. Ma quando ascolto questi brani, mi manca. Chissà che avrebbe detto della mia vita deragliata, dei miei percorsi senza uscita. Era una donna difficile, a volte distante. Aveva avuto una vita complicata ma non aveva mai perso la voglia di fare la monella. Andavamo la domenica mattina a Porta Portese a comprare le camicie usate per me, mi sembrava di averne pagate tre ma lei ne aveva cinque in busta. Si divertiva a infrangere qualche regola. Era attratta dal mistero, dal sovrannaturale. Era un’artista, dipingeva e scriveva bene. Era una sognatrice a cui la vita aveva cancellato i sogni.

Un anno prima che morisse la portai al mare, allo stabilimento Marechiaro di Ostia dove mio padre ci parcheggiava ogni estate, per due mesi (per fortuna). Si allungò sulla sdraio e poi si fece un bagno con calma, godendosi un’ondina dopo l’altra. Non si tuffava da almeno vent’anni. Aveva gli occhi che brillavano.

Anche se eri una dura, avevi un lato folle che mi divertiva. Sono più di trent’anni che non ci sei. Eppure oggi vorrei che tu fossi qui. Andremmo proprio a Ostia, dove ti sei sentita un po’ più libera e felice, a prenderci un gelato da Sisto o un krapfen al bar Paglia che li fa arrivare sul piccolo dirigibile. Ti ricordi quanto ci piacevano?

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Il mio primo ragazz(in)o

Ve lo ricordate il vostro primo amore? Quanti anni avevate? Io avevo quasi 14 anni e lui qualche mese di più. Due mocciosi saputelli che si atteggiavano a grandi ma non ci capivano niente: col senno di poi, quello che mi ritorna in mente fa ridere. Ma fa anche tenerezza.

Tanto tempo fa, quando ancora non c’erano i cellulari, uscivi di casa e nessuno sapeva più niente di te né poteva rintracciarti. Io invece non uscivo mai e mia madre, per buttarmi fuori di casa, mi iscrisse agli scout di quartiere. Voleva vedere se c’era vita in me o ero solo un fagotto buttato sul letto intento ad ascoltare alla radio “Supersonic Dischi a Mach 2” e “Per voi giovani”.

Accadde però che gli scout di zona si divisero e una parte confluì in un reparto storico e prestigioso, il Roma 9. Io seguii i “confluenti” – per la gioia di mia madre che finalmente mi vide allontanarmi da casa. La prima sede che frequentai fu in Piazza di Spagna, nei locali sotterranei dell’esclusivo Collegio San Giuseppe de Merode; poi ci spostammo in Via Pompeo Magno, zona Prati, nei locali ancora più sotterranei (e tortuosi) della chiesa di San Gioacchino (dove, ironia della sorte, si erano sposati i miei nel 1943) che dividevamo con l’allora fondamentale Cineclub Tevere.

Nel reparto Roma 9, tra ragazzini figli di ricchi che frequentavano l’elitaria Villa Flaminia (scuola privata gestita da preti) piombammo, dalla periferia di Roma Nord, io e la mia amica Laura, figlie di proletari. Mio padre era un ex operaio elettricista promosso a impiegato in seguito a un terribile incidente sul lavoro di cui fu vittima, il padre di Laura faceva il barista. Ci trovammo in mezzo a questi figli di papà molto carini, molto educati, molto forniti di ville al Circeo e sterminati appartamenti con pianoforti e cameriere fisse. E il mio giovane cuore prese a battere per uno di questi ragazzi(ni).

Quant’era carino il mio primo lui! Alto alto, magro magro, capelli ricci, occhi scurissimi, era simpatico e un po’ svitato. Aveva un buon odore: lo so che gli adolescenti più che un odore emanano un sentore di capra di montagna, ma tant’è. Ci siamo messi insieme senza sapere cosa volesse dire.

Ho ricordi piccoli e belli. I primi baci durante un campo scout, così tanti che il giorno dopo avevo le labbra indolenzite. Mi sentivo molto vissuta (e un po’ ridicola). La prima volta che dormimmo vicini eravamo in tenda (ma con altre dieci persone) saldamente chiusi ognuno nel proprio sacco a pelo perchè si gelava. Ci toccavamo solo con i nasi. La mattina seguente scoprimmo che aveva nevicato e la tenda era sommersa dalla neve.

Facemmo insieme anche un campo di volontariato, in una casa di riposo per anziani. Di giorno svolgevamo i nostri compiti con i malandati ospiti che ci avrebbero volentieri tolto di mezzo a colpi di dentiere – stupidi ragazzini romani fastidiosi come moschini della frutta. Di notte i ragazzi venivano a bussare alle stanze delle ragazze. Non si faceva nulla oltre che chiacchiere, baci e carezze, ma ci sembrava di essere esperti amatori.

Con lui mi ricordo uno scambio di battute che già mostrava la mia estrema simpatia. Parlavamo del brano cantato da Herbert Pagani, “Albergo a ore”, un pezzo straziante su due ventenni che passano la loro prima (e ultima) notte insieme in una stanza d’albergo, dove si toglieranno la vita. “Io lavoro al bar di un albergo a ore/ porto su il caffè a chi fa l’amore…”, citai io. Lui sorridendo mi disse: “A noi però non ce l’hanno portato il caffè…”. E io, che già da allora non capivo le battute ironiche, risposi acida: “Ma noi non abbiamo fatto proprio niente”, a sottolineare la pochezza delle effusioni.

La mia prima love story finì in modo indolore, perchè due quattordicenni alla fine sono solo due ragazzini che devono, giustamente, assaggiare qua e là la vita per trovare, da grandi, la loro strada nel mondo. Lui si invaghì di una tipa carina e chic che entrò nel gruppo insieme ad altre amiche tutte provenienti dalla scuola privata più esclusiva di Roma, l’Istituto Nazareth, frequentata solo dalle rampolle della Roma-bene.

Io andavo al liceo Guido Castelnuovo. Dove il più tranquillo era di Lotta Continua.

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Sto diventando grande

Quando ero ragazzina, una persona di 62 anni mi appariva decrepita, sull’orlo della fossa, vecchia di quella vecchiaia orribile che rende rugosi, svaniti, assenti e afflitti da mille malanni.

Oggi i 62 ce li ho io. Oddio.

La cosa strana è che non mi sento vecchia. Certo, le rughe sono tendenti al peggioramento, dimentico le cose, sono molto meno coinvolta in ciò che accade e ho uno svariato numero di malanni. Se mi guardo alla specchio gli anni si vedono, non c’è dubbio. Ma è dentro che non li sento. E questo è un grave problema.

Forse sono rimasta un po’ scema perchè non ho avuto figli e quindi mi sono mancate quelle grandi preoccupazioni (e quelle belle soddisfazioni) che ti forgiano l’animo. Ho vissuto i primi 40 con leggerezza, tra un lavoro di cui ero innamorata come di un affascinante Lucifer e una vita sentimentale pari a una favola a lieto fine con derive fancy. Ma mentre le altre mettevano su famiglia, io rimandavo.

Così è successo che ho avuto l'”arresto dello sviluppo”. Sono rimasta una ragazzetta che continua a sognare, a sentirsi ostile alle regole e diversa dagli altri. All’età mia è piuttosto ridicolo.

Intanto sto facendo crescere i capelli che finalmente, dopo una vita di riccitudine ostile, sono diventati quasi lisci: mistero della menopausa. Peccato che debba colorarli ogni mese se non voglio mostrare la feroce ricrescita white. Ma li taglierò corti prima dell’estate, così da lasciarli liberi di crescere bianchi o, spero, bianco-grigi. A quel punto, dati i miei outfit da invisibile – joggers, parka, scarpe da ginnastica – entrerò nella “no gender zone”, ovvero potrò essere scambiata per un vecchio uomo o una donna vecchia, a seconda da che angolazione mi guardi.

In vecchiaia donne e uomini perdono i caratteri fisici che li contraddistinguono e si uniformano in una persona senza genere, faccia cadente, capelli sottili, spalle abbassate, postura curva, passo lento. Madre natura, spesso matrigna, toglie alle donne una barcata di ormoni e questo ci penalizza nella forma, nell’odore, nella voce e nella zona “paesi bassi” che diventa una specie di prugna secca da accudire con costosi accorgimenti per non disintegrarsi del tutto.

Insomma, la natura si è voluta accertare di toglierci dalla piazza per lasciare spazio a quelle più giovani (leggi sane, fertili e in forze per allevare marmocchi), visto che gli uomini, pure da rimbambiti, possono fare figli anche a ottant’anni – con l’aiuto delle pasticchine. E’ la sopravvivenza della specie, baby, e non c’è cultura che tenga. Puoi pasticciare col bisturi e farti mille illusioni, ma il tempo passa beffardo, cinico e baro.

A maggio saranno 63. Non ho concluso granché nella mia vita. Il liceo, gli scout, il primo ragazzo, il secondo, il definitivo. L’università. Qualche viaggio (niente New York o USA in generale, niente Sud America, niente Irlanda o Islanda o Scandinavia, non ho visto quasi nulla). Il lavoro. Il lavoro. Il lavoro. Niente figli. Una malattia autoimmune. E poi? Pesco qua e là nei ricordi, ma vedo un percorso confuso, inconcludente e un po’ patetico. Non mi resta che cercare di fare qualcosa di grandioso nel tempo che resta.

Ma cosa?

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Solo il silenzio e la montagna

Non sono una grande camminatrice, mi scoraggio di fronte alle salite troppo erte o ai sentieri sassosi. Inoltre sono un po’ goffa e distratta, così mi capita di inciampare e cadere. Ma mi rialzo subito, perchè amo la montagna di un amore devoto e totale. Anche se non ci sono esattamente portata.

Il Cervino

La montagna che amo di più è quella della Valle D’Aosta, che ho visitato solo d’estate. La prima volta che ho visto il Cervino, 4.478 m., ho provato un colpo al cuore: è l’essenza della bellezza e dell’eleganza. Disegnato come i bambini disegnano le montagne, a triangolo, il Cervino punta verso il cielo con aria birichina e insieme terribile. Mi sono immaginata gli scalatori che l’hanno affrontato, come il mio mito Walter Bonatti. Io e mio marito, però, abbiamo sempre preso la funivia, con le bassotte in braccio avvoltolate in un paio di cappottini ciascuna perchè si arriva altissimi, sul Plateau Rosa, 3500 m, dove c’è sempre freddo e neve, anche a luglio.

Quello che si vede da lì toglie il respiro. Mi sono avventurata esitante su quella neve perfetta, alta, compatta. Che emozione! Non ho mai camminato molto, giusto un piccolo giro intorno alla stazione di arrivo della funivia e una passeggiata fino alla bandierina che indica il confine con la Svizzera. Mio marito, ex sciatore, sulla neve se la cava benissimo e ha camminato più di me. Ma non ci siamo mai fatti mancare il ristorante del rifugio, dove si mangia benissimo sulla terrazza al sole, polenta coi funghi, strudel e vino rosso.

Il Bianco

Il colpo al cuore l’ho avuto anche di fronte al massiccio del Monte Bianco, 4809 m. Immane, si alza come un muro di ghiaccio e roccia degno del Grande Inverno, ma al contempo sembra che ti abbracci e ti protegga, come un gigante a guardia della sua amata valle. Te lo trovi davanti vicinissimo, ma in realtà non lo è.

Purtroppo non ci sono mai salita con la funivia Skyway perchè non possono andarci i cani, dato che ricade nella zona di Parco Nazionale. Però ho percorso le valli che affiancano il Bianco, belle, luminose, perfette. Dalla Val Ferret siamo saliti al rifugio intitolato a Walter Bonatti, una fatica bellissima – con le bassotte spesso in braccio. Ma che batticuore vedere le attrezzature spartane di Bonatti in mostra!

Il Rosa

Una montagna che mi ha intimorito è il Monte Rosa, 4.634 metri: grandissimo, spigoloso, seducente nei riflessi di colori solo suoi. Siamo saliti (da tipici turisti) con la funivia, senza sapere che l’impianto si ferma per una pausa all’ora di pranzo. Siamo rimasti all’addiaccio, noi due e i cani, ammucchiati uno sopra all’altro, tremando dal freddo e sicuri di esser destinati a morire assiderati. Il gestore della funivia ci ha visti e si è mosso a pietà: ci ha fatti salire su una cabina e ci ha spediti giù con una corsa solo per noi, turisti romani scemi che chissà se avranno capito che con la montagna non si scherza.

Il Paradiso

La pace nel cuore me l’ha regalata il Gran Paradiso, l’altro 4000 della Valle d’Aosta, che abbraccia la valle con fascino scintillante e senso dell’infinito. Camminare nella Valnontey mi ha sempre dato la sensazione di essere immersa nella bellezza pura: un’emozione che solo la natura ti può far provare. Tra quelle montagne e quei boschi ci si sente liberi dai pensieri. Liberi da tutto.

Ovviamente non ho raggiunto nessuno di questi 4000 ma li ho solo ammirati da lontano. Questo mi è bastato per farmi innamorare di quei posti incantati.

“La montagna più alta rimane sempre dentro di noi”, Walter Bonatti

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La mia Ventotene

Vado in vacanza a Ventotene ormai da diversi anni. Sempre nella stessa casa che ci affitta un amico, con il giardino dove i cani si godono l’ombra e la terrazza a picco sul mare. L’isola è piccola, nemmeno 2 chilometri quadrati stretti e lunghi, con le case color mattone, ocra, gialle, rosa, azzurre, che non di rado mostrano i segni del tempo, a volte anche qualche inquietante crepa, puntellata a dovere. A Ventotene gli isolani ti salutano. Ti salutano anche quelli che sono i frequentatori abituali dell’isola e così quasi subito acquisisci quest’abitudine e basta poco per sentirsi parte di quella minuscola comunità in mezzo al mare.

Salite e discese

Ventotene è tutta salite e discese, ma la strada che s’inoltra nell’interno, tra campi coltivati e vegetazione mediterranea, è un po’ più dritta. Solo che non la faccio mai, perchè mi faccio prendere dalla pigrizia e resto tra la piazza Castello, i suoi dintorni e Calanave, la spiaggia – sempre più stretta – che sta proprio sotto il centro. Al massimo passeggio fino a Cala Rossano. Dal porto al centro del paese c’è una salita a zig zag che ti mette subito alla prova. Scendi dal traghetto e quella salita ti guarda con aria beffarda. Chi arriva affronta la salita a tornanti aguzzi con determinazione, trascinandosi dietro i bagagli a rotelle – già, perchè a Ventotene le macchine non si portano (ma noi sì, però poi la lasciamo al parcheggio dietro la piazza).

La libreria

A Ventotene ci vado prima dell’alta stagione. La gente non è tanta, l’atmosfera è pacata. Sulla piazza spicca una piccola e bellissima libreria che si chiama “Ultima Spiaggia”, con volumi selezionati tra i migliori in circolazione. C’è una vasta scelta di libri di viaggi e di mare ma anche una zona dedicata all’isola stessa e ai testi di chi pensò, proprio a Ventotene, a un’idea concreta di Europa. E una parte tutta dedicata ai bambini. ll proprietario si chiama Fabio, fine intellettuale e appassionato libraio di grande charme (e varie librerie) a cui le turiste si rivolgono per un consiglio di lettura (e non solo).

Cultura e lenticchie

Ventotene ha un’aria colta ma semplice, che ti fa sentire di vivere in un posto storicamente importante ma che non si dà arie. Per sorridere basta un piatto di zuppa di lenticchie e un bicchiere di Pandataria, il bianco locale che si chiama con il nome che i romani diedero all’isola. Ti siedi al bar Verde per un caffè e i vicini di tavolino discutono del ventennio fascista in cui, nel carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano, davanti a Ventotene, c’erano i dissidenti politici tra cui Sandro Pertini. Insomma, non è che parlano di calcio. Ma poi si va a fare i tuffi dagli scogli e a pisolare al sole.

A Ventotene è stato girato uno dei miei film preferiti, “Ferie d’agosto”, di Paolo Virzì.

Il carcere

Il carcere di Santo Stefano sembra il set di un film distopico. Invece è tutto vero. Io l’ho visitato con la guida di Salvatore, coltissimo pescatore che ti racconta il carcere facendoti emozionare e rabbrividire. Salvatore ti porta sull’isoletta di Santo Stefano in barca e già inizia a raccontare. La prigione è stata costruita in modo tale che ogni detenuto nella sua cella potesse essere sorvegliato da un solo guardiano posto al centro della struttura. Cammini tra quelle minuscole celle, molto rovinate, e ti sembra di sentire i lamenti ma anche i discorsi di chi ci fu rinchiuso. Camorristi e delinquenti, dalla fine del 700. E col fascismo, dissidenti antifascisti, socialisti, anarchici e pensatori.

Le mongolfiere

A Ventotene si conservano tradizioni antiche, come l’usanza di costruire bellissime mongolfiere di carta dipinte. La maggior parte vengono allestite per la festa della patrona Santa Candida, il 19 e 20 settembre, ma si fanno mongolfiere anche per festeggiare qualche compleanno speciale. Ho visto gli artigiani costruirle alla fine di giugno per un ragazzino che compiva gli anni poco dopo. Erano orgogliosi della loro arte ma anche restii a che fosse fotografata.

Il legame

Gli isolani sono legati al loro mucchio di roccia e macchia mediterranea in modo viscerale. Ho conosciuto giovani che hanno studiato, sono andati a lavorare in terraferma, si sono costruiti una professionalità. Poi sono tornati sull’isola. Si sono comprati una casetta che hanno dipinto di blu, hanno avviato una piccola attività. La mattina, all’alba, vanno a guardare il mare, il volo dei gabbiani, le scogliere, le piccole spiagge. E ne respirano la bellezza.

Lei e io

Io non ho viaggiato molto nella mia vita, quindi mi accontento di Ventotene, piccola, rocciosa, fragile, selvatica e ruvida. Come me. Entrambe ci stiamo un po’ sbriciolando, lei per l’erosione dovuta ai venti e all’azione del mare, io perchè sto invecchiando. Sarebbe bello, alla fine, entrare pian piano nel suo mare limpido, e andare via così.

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7 agosto 1943

Luciana e Ernesto

Questa è una foto del 7 agosto 1993. Sono i miei genitori nel giorno del loro 50° anniversario di matrimonio. Lui sarebbe morto qualche mese dopo, lei dopo tre anni. Mi piacciono le loro facce divertite e complici, malgrado la loro vita sia stata dura, faticosa e zeppa di incomprensioni. Eppure si sono amati – e forse detestati – tutta la vita, attratti e respinti dalle loro forti personalità.

Papà durante la prigionia


Si sposano nel 1943, il 7 agosto. Lui ha 24 anni, lei 19. Passano insieme un paio di giorni, poi lui deve ripartire. Carabiniere per necessità, dislocato a Bolzano, mio padre finisce nella Francia del Sud. La storia diventa fumosa, ma da quel che ho capito si unisce alle forze partigiane francesi.

Viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di concentramento dal quale riesce a fuggire insieme ad alcuni compagni che però vengono fucilati alle spalle mentre corrono e uno viene dilaniato dai cani-lupo dei tedeschi.

Mamma bella come un’attrice, papà figo con la pipa e poi che dirige la Banda del Baffo, orchestra jazz

I miei si ritrovano a guerra finita: lui era stato nascosto in una soffitta a Grenoble, poi aveva lavorato con i francesi per il rientro dei connazionali in Italia. Lei si era quasi convinta che fosse morto. E invece era lì, sceso da un treno zeppo di gente, ingrassato perchè aveva mangiato solo patate. Lei invece era secca secca, perchè di mangiare a Roma non se ne parlava proprio.

Mio padre era comunista, serio e rigoroso. Aveva perso l’uso del braccio destro in un terribile incidente sul lavoro ed era diventato mancino. Nel 1957 venne folgorato da una scarica di ventimila volt mentre controllava la centrale elettrica della fabbrica in cui lavorava come operaio. Rimase un anno in ospedale, il corpo bruciato quasi completamente fasciato, la pelle ricostruita con micro trapianti dalle poche zone in cui era ancora intatta. Perse l’uso del braccio destro, che rimase contratto nello spasmo muscolare della scarica, la mano rattrappita quasi a pugno nel gesto causato dal dolore. Imparò a scrivere con la sinistra.

Tutti noi pagammo l’ombra di questo terribile trauma nella sua vita. Ma lui era più duro della sofferenza. La sua azienda, in torto marcio con i sistemi di sicurezza, lo risarcì offrendogli un posto da dirigente. Lui ricominciò vivere (ma i trapianti di pelle continuarono a tormentarlo per anni). Io nacqui io nel 1959 – e lui deve aver pensato “Cazzo, un’altra femmina”. Mia sorella era nata 11 anni prima.

Siciliano di Randazzo, proprio sotto l’Etna, se n’era andato a 17 anni, emigrante a Milano in cerca di fortuna. Qui fece un corso da elettricista e divenne piuttosto bravo. S’incazzava per un niente ma poi ti faceva ridere e ti regalava cose deliziosamente inutili. Quando mi laureai mi fece gli auguri con un trafiletto sul Messaggero.

A Roma conobbe mia madre. Una ragazzina bella, con una testa piena di riccioli, occhi verdi, allegra, curiosa e romanissima, figlia di un trasteverino doc, Aristide Santacroce, e di una bella umbra di Guardea dal nome aristocratico, Gertrude Barberini. Tra i miei genitori fu subito amore appassionato, travolgente, romantico. Mamma adorava quel ragazzo bellissimo che era pazzo di lei e che suonava il jazz con la sua orchestra, finché il fascismo non proibì quella musica americana.

Mia madre era un”artista mancata, stritolata nel suo talento da un matrimonio che le stava stretto. Dipingeva, cantava, creava oggetti, cuciva. E fumava tantissimo, ma non morì per quello. Adorava andare a vedere da vicino fenomeni bizzarri: i santoni che curavano con le erbe, gli esorcisti in azione, i posti ritenuti magici. Credeva ai fenomeni paranormali, cosa che faceva incazzare da morì mio padre. Era dura e dolce, attenta e distante. Creativa e distruttiva. Complicata e semplice. Sognatrice e cinica.

Quanto mi mancano.

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Se rinasco, ovvero lista delle cose che farò nella mia seconda vita

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Escludendo che io mi sia comportata così male che lassù decidano di farmi rinascere pollo di allevamento, baco da seta, aragosta o altro animale destinato al martirio, ho una serie di indicazioni da dare per quando rinascerò nel mio secondo giro di giostra come essere umano.

  1. Se rinasco voglio studiare fisica, astronomia e informatica e diventare astrofisica, come Margherita Hack. In alternativa, voglio diventare geologa, tipo Mario Tozzi. Questo sempre che nella mia nuova vita ci capisca qualcosa di matematica e di scienze.
  2. Se rinasco voglio essere magra di natura e non passare un’infanzia da bambina cicciona e un’adolescenza da teenager tondetta come sono state le mie. Nella mia seconda vita mangerò come le tipe che dopo un terzo di pizza dicono “Sono pienissima!” e lasciano i due terzi rimanenti nel piatto.
  3. Se rinasco voglio viaggiare da ragazza, così da vedere il mondo in maniera avventurosa e incosciente. E con un paio di amiche, senza per forza un fidanzato accanto.
  4. Se rinasco voglio studiare il pianoforte. Quanto invidio chi sa suonarlo! Non ne vorrei fare una professione, ma un divertimento personale, un modo elevato ma lieve di vivere la musica. Leggere uno spartito e suonarlo dev’essere entusiasmante.
  5. Se rinasco voglio i capelli lisci scuri e gli occhi verdi, oppure i capelli lisci biondi e gli occhi castani. Insomma, basta che i capelli siano lisci, sugli occhi posso trattare.
  6. Se rinasco voglio avere un cavallo e imparare a cavalcare. Ho sempre amato i cavalli, fin da quella (unica) volta che i miei mi portarono sui consunti pony di Villa Borghese.
  7. Se rinasco voglio avere la passione per lo sport e il movimento come la mia amica Gloria. Lei va in bici, gioca a tennis e balla. La mia unica attività fisica è portare a spasso i cani. E si vede.
  8. Se rinasco voglio avere dei bambini. Ma voglio vivere la mammità come la mia amica Valentina, che ha tre figli di cui due circa ventenni e una settenne ed è sempre rilassata e mai ansiosa, in jeans e Converse, bella come una teenager. E ha pure due cani.
  9. Se rinasco voglio essere sicura di me. Va bene “abbi dubbi”, ma ho passato una vita ad avere dubbi su me stessa senza mai sentirmi in grado, all’altezza, degna di. L’autostima, nella mia prossima vita, sarà una certezza. Altrimenti non mi prendo nemmeno la briga di rinascere.
  10. Se rinasco, non voglio più sognare di rinascere per fare cose che non ho saputo fare. Se rinasco, sarò felice della mia nuova vita e non chiederò di più.
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Ma quanto erano fighi gli anni Ottanta

Gli anni 80 cominciarono con un programma che ho amato infinitamente. Era “Mister Fantasy”, andava in onda il martedì sera dopo le 23, lo conduceva il grande e coltissimo Carlo Massarini, bello e perfetto nel suo look total white. La trasmissione proponeva musica da vedere, ovvero i primi video musicali che cominciarono a diffondersi in quel periodo. E come corollario, tutta l’estetica glam e new romantic che caratterizzava le star di allora.

Gli anni ’80 iniziavano così. Li ho amati per la loro carica di esagerazione, di make up su maschi-femmine-altro, di pizzi, croci, raso, capelli gonfi, spalline. Dicono che siano stati anni stupidi, che non hanno dato nulla alla musica. Falso. Hanno dato il coraggio di osare, di sperimentare, di abbattere le barriere, di essere diversi facendone una sfida.

Chi avrebbe ora l’ardire di provocare come Boy George? E chi avrebbe la sfacciataggine di Madonna, non solo di farsi chiamare come una nota esponente del gotha celestiale, ma di ricoprirsi di croci mentre manda messaggi hot? Oggi chi avrebbe voglia di indagare suoni nuovi come i Depeche Mode, che mettevano il rombo di un motore o il suono di un vetro che si rompeva nelle loro canzoni?

Oppure l’impudenza di puntare sull’aspetto da bellissimi come i Duran Duran, che comunque sono ancora qui e fanno una gran musica. Bellissimi pure gli Spandau Ballet, figli di operai che cantavano di madri con le rughe dei sacrifici sul volto. Gli anni 80 hanno lasciato bellissime canzoni che infatti si ascoltano anche oggi. Tantissimi brani sono raccolti nelle innumerevoli compilation di “One Shot 80” che, purtroppo o per fortuna, ascolto ancora.

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La cotta (proibita) dei miei 16 anni

A 16 anni ero scema. Oddio, pure oggi non scherzo, ma a quell’età per me c’era solo lo studio (dove non eccellevo), la musica rock (avevo la radio sempre accesa) e la mia amica Laura. La sua famiglia era nostra dirimpettaia, quindi io e lei siamo cresciute insieme (lei meglio, però).

Un’estate i miei tentarono la mossa di mollarmi alla famiglia della mia amica per una vacanza in Friuli, terra originaria della mamma di Laura. Era l’agosto 1975. I suoi genitori abboccarono e mi si caricarono, con l’idea che avrei fatto compagnia alla loro ragazzina.

Arrivammo nella piccola cittadina della mamma di Laura, Pordenone. Carina, pulita, un gioiellino. Lì conoscemmo una ragazza che lavorava nella lussuosa profumeria della zia di Laura. Era molto simpatica e decise di far conoscere “le romane” ad alcuni suoi amici.

Tra di loro c’era lui. Si chiamava Giorgio, 25 anni. Nove più di me, un’enormità a quell’età. Io avevo avuto un solo fidanzatino, Filippo, a nemmeno 14 anni, una cosina piccina da scout puri e rigorosi. Quel friulano mi tramortì.

Aveva una Ducati gialla e una Dyane rossa, mezzi di locomozione allora iconici. Fumava le Gitanes, naturalmente. Aveva un tono di voce basso e caldo e uno sguardo che mi ipnotizzava. Parlava di anarchia, rivoluzione, poesia e io m’innamorai come può farlo una ragazzina: follemente.

Scappavo dalla casa della mamma di Laura per stare con lui – e alla fine mi beccai un cazziatone che la metà bastava. Ma ero pazza d’amore – a quell’età è così, o perdi la testa o non ne vale manco la pena.

Evidentemente conscio che, se toccava la minorenne romana, andava dritto in galera, il ragazzo non andò mai oltre i baci e gli abbracci, nemmeno quella volta che mi invitò a casa sua (col senno di poi, rischiai non poco: ma allora non me ne rendevo conto).

Il mio giovane uomo friulano mi portava in moto a vedere i dintorni e poi ci fermavamo a chiacchierare sdraiati su un prato. Aveva una compagna, naturalmente. Di questa ragazza non m’importava niente, con l’indifferenza dei sedici anni.

Nei suoi bigliettini zeppi di dolci parole mi chiamava la “ragazzina dai capelli ricci”, la “romana che… sbam!” e si firmava C.A., ovvero “Conte Arrugginito”. Citava André Breton e Paul Eluard, di cui mi scrisse la poesia “Libertà” (io ignoravo chi fosse e rimasi folgorata).

Su i quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome (…
)

Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome (…
)

E in virtù d’una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti Libertà.

e mi citò la frase di Thoreau (che io ignoravo/bis) riferendola a se stesso.

Se un uomo non tiene il passo con i compagni, forse questo accade perché ode un diverso tamburo. Lasciatelo camminare secondo la musica che sente, quale che sia il suo ritmo o per quanto sia lontana.

Figurarsi a 16 anni che effetto poteva farmi! Piansi tutte le mie lacrime (e anche di più) quando venne il momento di dirsi addio perchè dovevo tornare a Roma.

Mi scrisse tante lettere che conservo con cura, zeppe di baci, di “se”, di “ma”. “Cosa ti resterà di me – scriveva – piccolo coniglietto innamorato?”. Il coniglietto era riferito ai miei incisivi da roditore che in effetti mi davano un look più da criceto che da lapin.

Ci sentimmo un paio di volte per telefono. Allora non c’erano i cellulari e Giorgio mi chiamò a casa, suscitando le ire di mio padre: “Chi è questo che si permette di chiamarti??”. I genitori di Laura gli avevano riferito della mia sbandata per uno molto più grande di me. Papà, siciliano incazzoso, avrebbe voluto ammazzarlo via telefono. Io, nel frattempo, piangevo.

Un anno dopo Giorgio mi scrisse che aveva lasciato il lavoro – faceva l’infermiere, o almeno così mi aveva detto – e si era aperto un negozietto a Pordenone dove vendeva oggetti di artigianato in pelle. La storia con la sua ragazza si era chiusa. Ma io intanto veleggiavo verso altri lidi. E non immaginavo quanto sarebbe stato tragico l’ultimo atto del “Conte”.

Un giorno mi arrivò la notizia che Giorgio era morto in un conflitto a fuoco con la polizia: non era chiaro se fosse implicato nelle Brigate Rosse o coinvolto in brutte storie di eroina. Ipotesi entrambi plausibili, erano gli anni del terrorismo e della droga pesante. Non provai nulla. Per me faceva parte del passato remoto. E tutto l’amour fou si era dissolto.

Però oggi, a distanza di millenni, mi emoziona rileggere le sue lettere e mi fa tenerezza quella ragazzina scema e disperatamente cotta del romantico “Conte” friulano.

Foto di apertura tratta dal web