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Hotel California e dintorni

Quando uscì quest’album degli Eagles lo comprai con i miei risparmi. Avevo sentito questa band per radio, in programmi epici come “Supersonic” e “Per Voi Giovani”. Ero una ragazzina ma di musica già ne capivo un po’. E gli Eagles (insieme ad altre band memorabili) accompagnarono quegli anni turbolenti e confusi: si facevano manifestazioni, ci si faceva inseguire dai celerini, si parlava tanto, si faceva l’alba chiacchierando, ridendo, fumando, si ascoltavano le radio libere, prima fra tutte Radio Città Futura. Il singolo “Hotel California” è del 1977, anno in cui il segretario della CGIL Luciano Lama venne contestato con violenza all’Università da Autonomia Operaia e altri gruppi; anno in cui il movimento femminista si ampliò a tantissime donne compresa me conquistando una forza significativa; anno del Movimento del ’77, nel quale molti di noi erano coinvolti in maniera pacifica ma che comprendeva gente pronta a sparare con le P38; anno dei Clash, adorati da subito; anno della prima udienza del processo ai capi delle Brigate Rosse ma anche della prima serata allo studio 54 di New York, da cui arrivò una musica che ci fece riporre i dischi dei cantautori italiani impegnati per metterci a sentire (di nascosto, perchè pareva brutto) la disco dance. Nel ’77 era già un anno che stavo con Riccardo e ancora mi chiedevo come mai lui, figo bello ed educatissimo, figlio di un militare, si fosse innamorato di me, pasionaria maleducata figlia di un operaio comunista. Nel ’77 compivo 18 anni e feci una festicciola per gli amici. Ero giovane, presuntuosa, saccente, egoista, intollerante, ma gli amici vennero tutti. Chissà se sono cambiata. Chissà se la vita, a forza di colpi di maglio, ha ridotto gli spigoli, i lati taglienti, le asperità graffianti. Intanto gli Eagles li sento ancora. E pure i Clash.

video da youtube/ diritti indicati in https://www.youtube.com/watch?v=09839DpTctU

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Talvolta è meglio non chiedere perché

Photo by Helena Lopes on Pexels.com

Da bambina avevo già un carattere schifoso. Facevo storie perché non volevo dormire da sola, mi terrorizzava e attaccavo interminabili piagnistei. Mia madre, per sedarmi, mi cantava qualche canzoncina, sperando di farmi prendere sonno. Una delle canzoni che intonava era la “Ninna Nanna del Cavallino”, di Renato Rascel, che si capisce subito di cosa si tratta perchè lui lo dichiara all’inizio. Mia madre, scaltra come una volpe, evitava di ripetere quelle parole che Rascel pronuncia prima di cantare e attaccava subito con “Lungo i pascoli del ciel / Cavallino va / tutto d’oro è il suo mantel / Nell’oscurità…” Musica dolcissima, la voce di mia madre intonata e melodiosa: il risultato era che crollavo addormentata. Una sera, però, mi venne un dubbio: non riuscivo a capire cosa fossero quei pascoli del cielo e perchè il cavallino procedesse nell’oscurità, sebbene dotato di un mantello d’oro. “Mamma ma perché il cavallino corre in cielo?” ebbi la stoltezza di chiedere. “Ma perché è morto, no?” fu la sua dolce risposta.

Scoppiai a piangere come una vedova siciliana dietro al feretro di un congiunto. Mia madre mi aveva ipnotizzato tutte le sere con una canzone su un cavallo morto e io non l’avevo mai capito. Non so se fossi più incazzata perchè la genitrice mi aveva addormentato con un canto funebre o perché ero stata così ingenua da non capirlo.

Morale della storia? Certe volte è meglio astenersi dal chiedere perché.

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Rimpianti, rimorsi o niente del tutto

“Ho cercato di rimanere incinta. È stato un percorso difficile, durato diversi anni. Ho provato anche con la Fivet. Fra l’altro, c’era questa narrativa che mi dipingeva come egoista, concentrata solo sulla carriera. Ora mi sento sollevata perché non c’è più l’incertezza. Non ci devo più pensare, è finita”, Jennifer Aniston, 53 anni, su “Allure”, novembre 2022.

La frase della star di “Friends” sembra detta da me. Non solo non ho avuto figli, ma non ho mai avuto quel desiderio istintivo, quel “battito animale”, quel richiamo profondo ad avere prole. E dire che ci ho provato. Non solo ad averne tecnicamente, ma a sentire anch’io quella spinta irrefrenabile che ha portato tutti gli esseri viventi ad avere una progenie. E’ l’istinto di sopravvivenza, la prosecuzione della specie, la volontà ancestrale che guida il mondo. E’ anche vero che le estinzioni di massa (una fra tutte, quella dei dinosauri) hanno interrotto bruscamente almeno 5 volte l’esistenza di esseri viventi sul nostro pianeta, da circa 450 milioni di fa in poi. E’ bastato un asteroide kamikaze e puff! quasi tutti gli esseri viventi sono scomparsi. Quindi tutto questo sforzo riproduttivo è andato un po’ a farsi benedire. Ma tant’è. Tignosi e testardi, i pochi sopravvissuti hanno continuato a moltiplicarsi e a evolversi per diventare più resistenti, più furbi, più resilienti. Se non avessero avuto l’impulso a riprodursi sarebbe finita lì.

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Invece tutte le mie amiche, di ogni formato fisico e caratura estetica, di ogni ceto sociale, di ogni livello e provenienza, hanno avuto figli. A un certo punto della loro vita hanno sentito il richiamo della natura che hanno seguito con gioia e sono diventate mamme. Chi con parti facili e immediati, chi con travagli epocali e dolori da rimanerci secche (ma tanto dopo non te li ricordi), hanno avuto bambini ai quali (quasi tutte) si sono dedicate con dedizione. Poi, dopo un po’, la loro unione col papà del piccolo è finita, ma che importa: intanto avevano il loro bimbetto e chi se ne frega del padre, che in fondo era pure un rompicoglioni.

Io, zero. Nessun afflato. Nessun impulso. Niente struggimento davanti a un bebè. Cuore di pietra. Mio marito si sdilinquisce di fronte ai bambini e io sono devastata dal senso di colpa di non esser riuscita a dargli un erede – e dal non avere mai avuto l’irrinunciabile chiamata alla riproduzione.

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Parlando con un’amica anche lei senza figli, abbiamo ragionato sulla fine del nostri ceppi familiari. Suo fratello non ha figli, mia sorella una figlia sola che non ha figli, e siamo tutti grandi. Quindi – zac! – siamo due nuclei destinati all’estinzione. “Ne rimarrà uno solo, e poi manco quello”. Ci siamo messe a ridere come due sceme, pensando a questo dio che diceva “Questi mi sono venuti male, li termino”. Io sono atea, lei non so, ma abbiamo la stessa malattia autoimmune. Spesso tendiamo a ridere della vita più che a drammatizzare (inutilmente). E a concludere le riflessioni più con un “chi se ne frega” che con un “che dispiacere!”.

Io rido sulla mia vita, ma se guardo indietro vedo nebbia e foschia, panorami indistinti da cui fuggono ricordi talmente piccoli che non hanno la forza di piantarsi nella memoria come testimonianze di quanto bella ed emozionante sia stata la mia esistenza. Forse è scivolato via tutto anche perchè non ho mai deciso davvero. Né un progetto, né un futuro. Né un figlio.

Soundtrack: RYX, Sweat, video da youtube

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Vorrei, vorrei

Vorrei tornare in quel mondo dove ai compleanni compravi la torta Charlotte, non c’erano i cellulari e te la cavavi con i telefoni a gettone. Se li trovavi.

Vorrei tornare alle estati al mare, a Ostia, dove mio padre ci parcheggiava per due mesi, io mia madre e mia sorella. Il gelato era lo Zatterino (in realtà Camillino, L. 50). Io ero una ragazzina cicciona ma serena, anche se le mie amichette avevano già il filarino e a me non mi guardava nessuno. Andavo in giro in bicicletta su e giù per i cavalcavia e non avevo paura di niente. La paura sarebbe arrivata dopo.

Vorrei tornare in quel mondo dove andavamo in giro su motorini dai nomi buffi, il Ciao, il Corsarino, il Garelli, il Boxer – che era il mio, un maledetto coso verde che si fermava sempre per cause inspiegabili. Imparai a guidare il motorino sui sassolini di Piazza Cavour, istruita da un amico che poi decise da solo della sua fine.

Quando si andava alle Feste dell’Unità dove suonavano i cantautori e si mangiavano panini unti e buonissimi. Tornare alle sigarette MS, che fumava mia madre e poi anch’io. Alle passeggiate lunghissime nei prati e nei boschi dietro casa con la mia amica Laura, senza paura che qualcuno ci aggredisse.

Tornare alla borsa di Tolfa, che esiste ancora ma costa uno sproposito. E anche agli zoccoli neri da femminista, scomodi ma iconici e quindi irrinunciabili. Tornare ai jeans Levi’s o Roy Rogers, che allora mi entravano.

Vorrei tornare alle uscite con mia madre che, dovunque andavamo, rubava qualcosa. Una volta in un ristorante del centro si portò via con nonchalance una tovaglia da 12 con tutti i tovaglioli. In un bar di Piazza Navona trafugò sorridendo 6 sottobicchieri di metallo. Nessuno la beccò mai.

Vorrei tornare alle domeniche mattina a Porta Portese, quando ci si trovava davvero di tutto e ci compravamo le camicie da uomo americane usate che ci parevano bellissime. Mia madre colpiva anche lì.

Vorrei tornare al Cineclub, un posto sotterraneo dove proiettavano film-pietre miliari che non potevi non vedere. Ci vidi “Fragole e Sangue”, “Piccolo Grande Uomo”, “Il Laureato”, “Butch Cassidy e Billy The Kid”, Woodstock”.

Vorrei tornare all’Università e a quella dimensione di sapienza, cultura, curiosità e cioccolata calda alla macchinetta al secondo piano. A quei professori scombinati che mi affascinavano con le loro lezioni. Mi ero affezionata a loro, e forse loro a me. Almeno uno.

Vorrei tornare a suonare la chitarra con gli amici, sgolarsi nel ritornello di “Contessa”, cantare le lunghissime canzoni di Guccini che, non si sa come, sapevamo tutte a memoria. Vorrei tornare a quel momento magico in cui suonai “Right between the eyes” per un amico che voleva conquistare un deliziosa ragazza, Cosetta, e con quella dolce canzone ci riuscì.

Vorrei tornare a sedermi la sera intorno ad un fuoco, in silenzio, fissando le fiamme agili e leggere, con un’inspiegabile malinconia nel cuore.

Vorrei tornare a passare le notti a chiacchierare e a fumare, a divertirmi al concerto di Edoardo Bennato, a gustarmi la pizza di Baffetto a Via del Governo Vecchio, a sentire i Led Zeppelin, i Genesis, Simon & Gafunkel. E “Supersonic” alla radio.

Vorrei tornare a camminare con lo zaino pesante sulle spalle e avere la sensazione di essere speciale.

Vorrei tornare a emozionarmi, a indignarmi, a scendere in piazza. A credere in un ideale. Vorrei tornare a sentire quella forza interiore che mi scuoteva e mi faceva muovere, ma anche fare cazzate colossali, con la costante che non ho mi imparato dai miei errori.

“Vorrei poter tornare indietro. Vorrei avere ancora 18 anni e la vita davanti tutta intera”. Marisa (Sabrina Ferilli) in “Ferie D’Agosto” di Paolo Virzì, 1995

La scena dei desideri durante la notte delle stelle cadenti

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Quello che mi manca

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Se c’è una cosa che mi manca tantissimo del lavoro di prima è stare insieme con altre persone. Salutarsi al mattino, prendere un caffè alla macchinetta, ridere di cose sceme, discutere e litigare su cose importanti (e anche stupide, in alcuni casi). Mi manca proprio quel momento in cui giravo lo sguardo e vedevo la collega vicino a me sulla destra, poi quella in fondo, e ancora l’altra davanti. Era rassicurante, confortante, piacevole. Anche se, avendo io un brutto carattere (e chissà se allora qualche macchiolina non alterasse anche quello, oltre la vista), non rendevo loro la vita facile. Però il doloroso senso di assenza testimonia quanto fosse forte il legame che provavo. Non so se fosse vero affetto o abitudine, ma che importa?

MI manca lavorare a un progetto comune e condividerne la creatività, la fretta, le arrabbiature. Mi manca il contatto anche fisico con le persone con cui lavoravo, l’abbraccio, il bacio, la pacca sulla spalla. Il buongiorno al mattino. Le feste di compleanno fatte quasi in segreto con cose buone da mangiare portate di soppiatto. E le loro voci. Pensavo durasse tanto. Invece ho perso tutti in un attimo.

Lavorare da soli non è bello. Lo faccio, ma non mi piace. Ora che ho qualcosa di nuovo da fare, provo a conoscere in qualche modo le persone che lo fanno con me, ma da lontanissimo. Le trovo sui social, ci scambiamo cuoricini. Colleghe mai viste ma in qualche modo già vicine. E ancora mi batte il cuore.

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Di nuovo a teatro, con JCS

Il gran finale di “Jesus Christ Superstar” al Sistina

Ieri sera siamo tornati a teatro dopo due anni di serate “divano e tv”, in cui non abbiamo frequentato posti affollati per evitare il contagio che poi ci ha beccati lo stesso. Siamo andati a vedere Jesus Christ Superstar, storica opera rock che, grazie al film omonimo tratto dal musical originale, ha formato la nostra adolescenza. E’ stato bellissimo entrare al Teatro Sistina, tempio del musical italiano da decenni, e andarsi a sistemare nelle poltroncine rosse sempre uguali, non troppo comode ma ci piacciono così. Sul palco lo stesso Ted Neeley di sempre: ha 78 anni ma canta (e si muove) con il carisma e la forza di quando ne aveva 30 e interpretava Gesù nella pellicola di Norman Jewison del 1973.

Noi nelle poltronissime (una volta che si va a teatro si prendono i posti migliori)

Il musical è grandioso, i protagonisti fenomenali (tra cui Frankie Hi Nrg che interpreta Erode), l’atmosfera è elettrizzante e familiare: ci si sente parte della grande comunità di quelli che hanno visto il film almeno venti volte e lo sanno a memoria. Il pubblico è quasi tutto di un’età riconducibile al fatto che Jesus Christ Superstar sia stato visto per la prima volta intorno ai 20 anni, quando uscì nel cinema. Noi abbiamo cantato per quasi tutta la rappresentazione. Ci siamo divertiti, emozionati, commossi anche per i ripetuti omaggi all’Ucraina.

Però, da atea, voglio fare una considerazione sulla vicenda di Gesù. La domenica prima tutti a festeggiarlo urlando “Osanna!”, pochi giorni dopo tutti a odiarlo urlando “Crocifiggetelo!”. La gente è così. Oggi ti ama, domani ti vuole vedere morto.

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Non è mai troppo tardi per vivere un’infanzia felice

Con questa frase il mitico Carlo Massarini chiudeva il suo “Mister Fantasy”. Nel rispetto di questa filosofia che ho fatto mia da anni, ho comprato una scatola di Lego. Era tanto tempo che volevo farlo, e l’occasione è arrivata quando IBS ha proposto alcune confezioni in offerta. Ho preso il Lego della serie tv “Friends” (una delle mie preferite), che riproduce il “Central Perk” dove Rachel, Monica, Chandler, Phoebe, Ross e Joey bevono caffè e chiacchierano. Ci siamo messi a costruire la scena io e Riccardo, lui montava i pezzi e io li dividevo per colore. Sono state ore bellissime di relax mentale, condivisione e divertimento.

Temo che comprerò qualche altra scatola di Lego a tema. Certo, non è un passatempo creativo, tu devi solo montare gli elementi seguendo attentamente le istruzioni, però è bello vedere come cresce la costruzione man mano che ti districhi da quel mare di pezzettini colorati. Da piccola avevo delle costruzioni bellissime, erano solo mattoncini rossi di quattro misure. Ci facevo palazzi, villette, rifugi e casette. Il Lego di oggi ti guida e ti impone di assemblare qualcosa che hanno pensato i suoi ingegneri. Ma va bene lo stesso per vivere un’infanzia felice.

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Chi si salverà?

L’Articolo 11 della Costituzione dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Però è stato appena approvato l’aumento delle spese militari dagli attuali 68 milioni di euro al giorno a 104 milioni al giorno. Essere pacifisti è un’utopia? Sperare in un mondo senza guerre è un’amena favoletta? La guerra è talmente radicata nel cervello umano che, da sempre e ovunque, è il modo con cui le popolazioni hanno tentato di dominarsi a vicenda. Per i soldi, per il potere, per l’ambizione, per il territorio, per la religione. Di guerra dovremo finire, in un olocausto totale che finalmente ci spazzerà tutti via dal Pianeta. Risorgeranno solo gli scarafaggi che si erano nascosti in profondità, lontani dalle ricadute radioattive, corazzati e organizzati. Ed erediteranno la Terra, meritandosela.

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Arresti domiciliari

Dall’inizio della pandemia sono stata super-ligia alle regole. Mascherina FFP2 fin dall’inizio, incollata al naso non appena uscivo di casa. Lavaggio delle mani ossessivo, che infatti ormai ho due tozzetti rugosi e pallidi alla fine delle braccia, disinfettante da sala operatoria, solitudine non solo dei numeri primi ma anche di tutti gli altri. Bene. Dopo oltre due anni di guardia altissima, evitando amici, locali, negozi, vicinanze sospette, ho preso il Covid.

Io ho una malattia autoimmune quindi non è che un attacco di un virus furbo e malvagio sia proprio quello che rende felice il mio sistema immunitario. Il covid ha avuto un esordio pirotecnico: febbre a 39, vie respiratorie intasate che manco il raccordo anulare prima di Natale, spossatezza al limite del coma. E tutti a dirmi sei fortunata ad aver fatto i 3 vaccini sennò a quest’ora eri morta o almeno cosparsa di tubi in terapia intensiva. L’idea dei tubi in effetti è piuttosto terrorizzante.

Così io e il socio ci siamo chiusi in casa stile arresti domiciliari, con le bassotte perplesse e poi infastidite dal fatto che non si andava a spasso. I bisogni fateli sui tappetini, ragazze! Mia sorella ci ha lasciato ogni giorno pane e dolci fuori della porta. Ne ho approfittato per dormire tantissimo, guardare la signora Meisel su Prime Video, scrivere e farmi girare le scatole oltremisura, visto che tutte le mie ridicole paranoie non sono servite (quasi) a niente.

Ancora ho qualche sintomo e devo attestare la negativizzazione. In effetti mi sento ancora positiva, ovviamente non nel senso di ottimismo e fiducia nel futuro. Tutta questa storia mi ha dato una grande lezione di vita: se una cosa deve succedere, succede. Ma meglio se sei vaccinata.

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La discesa saponata

Alyssa Monks, “Stare”, olio su tela, 2010

Ho un’amica brillante e intelligente che ha un senso dell’umorismo sottile e pungente. Si chiama Evelina e ha coniato un modo di dire perfetto per descrivere il passare del tempo. “Stai sulla discesa saponata, scivoli giù e non trovi appigli per bloccarti”.

La discesa saponata è la perfetta metafora dell’invecchiamento, ovvero quello stato in cui ormai ti è scaduta la garanzia e non trovi neanche più i pezzi di ricambio. La discesa saponata si fa concreta quando ti guardi allo specchio e sussulti pensando “Ma che cazz… quella sono io?”. Ti tiri su le guance con le mani e ravvisi in quella faccia qualcosa di te ragazzetta, lo sguardo acceso, la bocca morbida. Poi molli la presa e la tua faccia ricorda il crollo di una diga, come cantava De Gregori.

La vecchiaia – ed è questo il nome, inutile girarci intorno – ti avvolge giorno dopo giorno, con la ferrea ineluttabilità del passare del tempo. E somiglia a una di quelle creature orrende che solo la mente di Stephen King può immaginare e descrivere. Hai voglia a mettere creme costose, la forza di gravità chiede il suo tributo ogni giorno. La chirurgia, le punturine? Mezzucci che ti rendono il viso gommoso e irreale – e qui torniamo ai mostri dello scrittore del Maine.

Col tempo io ho cambiato colore, forma, densità. Come diceva Piero Pelù. Il carattere no, è rimasto duro e ombroso, con la differenza che ora mi scatta il “chi se ne frega” con una frequenza estrema. E’ un “chi se ne frega” che si estende a tutto, agli altri, al mondo, a me. E’ una freddezza interiore che si espande come il ghiaccio nel mondo di “Snowpiercer”. E’ brutta. E’ la scomparsa delle emozioni.

Se su “Google Immagini” si cerca “donna vecchia” escono delle foto terrificanti. Volti devastati nella pelle e nella struttura ossea che vanificano i commenti come “è la saggezza che si manifesta” o “è il segno dell’esperienza”. Di Benedetta Barzini ce n’è una. Inoltre con l’avanzare del tempo uomini e donne si somigliano, si confondono, perdono i connotati che li identificano. E per noi c’è di più, perchè la natura ha pensato bene di farci fuori dal giro in maniera più che evidente. I nostri “paesi bassi” progressivamente si cancellano, si sfaldano, si modificano e chiudono col mondo molto prima che chiuda tu. Per la gioia dei produttori di dispendiose creme specifiche per idratare e lubrificare la zona morta.

Ho esagerato? Si può rimediare a tutto questo? Non lo so e non me ne frega niente. Meglio un bicchiere di vino rosato del Salento a 10 gradi.

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Ho studiato con Indiana Jones

Quando mi sono iscritta alla facoltà di Lettere avevo quel gradevole senso di fallimento che mi accompagnava sin da allora (e che non mi ha mai lasciata, ormai è una relazione consolidata). Il motivo? Avevo già provato con Sociologia, non capendoci nulla, e dopo aver buttato un anno tentando di entrare nel mood di Ferrarotti, mi arresi. Sociologia non faceva per me.

Ripiegai su Lettere, ben lungi dal sognare di studiare la storia medievale o la filologia romanza. Avevo adocchiato alcune materie che mi attraevano di più: Antropologia culturale, Etnologia, Religioni del Vicino Oriente Antico, Storia delle Religioni, Religioni dei Popoli Primitivi. Tutte ‘ste religioni non erano dovute al fatto che io fossi credente (non lo sono) ma alla mia curiosità per il modo in cui gli uomini s’inventavano pantheon e aldilà.

Cosa ci avrei fatto con questo indirizzo di studi? Niente, ovviamente. Ma mi pareva super affascinante. Superai due annualità di Antropologia con Cirese, Etnologia con Signorini e varie altre materie tipo Storia del Teatro e dello Spettacolo o Storia del Cristianesimo. Quando approdai alla cattedra di Religioni dei Popoli Primitivi ebbi l’illuminazione, come Jake e Elwood di fronte al reverendo Cleophus James. Era quella la MIA materia!

Il professore ordinario era Gilberto Mazzoleni, uno studioso timido, simpatico e un po’ fuori di testa, storico delle religioni di enorme sapienza. Aveva fatto missioni in America Latina e in Scandinavia, e io beccai le lezioni sui Sami, popolazione della Lapponia. Decisi che mi sarei laureata con lui. Così divenni una studentessa-habitué del dipartimento e iniziai a seguire i seminari di un assistente di Mazzoleni che si chiamava Gerardo Bamonte.

Biondo, non molto alto, barba da esploratore e occhi azzurrissimi, Gerardo divenne il mio mentore e la mia guida nell’affascinante mondo dell’etnologia letta attraverso gli studi storico-religiosi. Simpatico e coltissimo, era stato dovunque ci fosse una popolazione indigena: in Africa, in Asia, in America Latina. Parlava quattro lingue più un po’ di quechua e si occupava di noi studenti come un capo scout segue le sue squadriglie.

Ascoltare le sue lezioni e i suoi racconti era bellissimo, sembrava di vederlo farsi strada nella foresta Amazzonica o nelle paludi del Bengala. Era un convinto sostenitore del diritto all’autodeterminazione di tutte le popolazioni indigene. Abitava a Piazza Verbano e girava su un’impolverata Land Rover anni 60 molto cool sulla quale sono salita una sola volta, aspettandomi di vedere il cappello e la frusta di Indiana Jones sul sedile posteriore.

Gerardo coinvolse alcuni di noi studenti nella creazione di una biblioteca che chiamò Centro Studi Amerindiani, presso la fondazione Lelio Basso in via della Dogana Vecchia, al centro di Roma. Fu il mio primo piccolo lavoro retribuito. Pochi soldi, ma ero felice. Con la prima paga mi comprai un paio di occhiali da sole Persol, molto fighi. Facevo l’archivista bibliotecaria dei materiali sugli indios (riviste e libri) insieme ad un collega di corso, Davide, sotto la supervisione di Gerardo, che mi chiamava “Mon petit chou” quando non capivo qualcosa o combinavo qualche pasticcio.

Mi laureai con la Cattedra di Religioni dei Popoli Primitivi con una tesi intitolata “La ricerca dell’Eldorado: analisi di un fenomeno mitopoietico tra ‘500 e ‘600”, che se provo a rileggerla ora non la capisco. Beccai un 110 e lode credo in base alla fiducia e all’affetto che c’era con Mazzoleni e il suo staff. Non vidi mai più Gerardo. Ho scoperto sul web che se n’è andato nel 2008.

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Mi piace/Non mi piace

Vignetta di Massimo Cavezzali, dal web.
Cavez ti adoro (e lo sai)

Direte che sto sempre a rimestare nel pozzo dei ricordi e in effetti è un po’ così. Nella rivista settimanale per teenager che ho fatto per vent’anni c’era una rubrichetta di una pagina che si intitolata “Ci piace/Non ci piace”. Consisteva in un elenco di cose che le ragazzine apprezzavano o detestavano, tipo Mi piacciono le spalline/Non mi piacciono i colori spenti oppure Mi piacciono i baci/Non mi piacciono le discussioni.

Chissà come sarebbe ora quella rubrichetta. Ci pensavo ieri e riflettevo che fare una lista di cose gradite e non amate sarebbe divertente. E quindi… i dodici MP/NMP del mese.

MI PIACE

  • L’odore della mia cana bassotta Spilla, un misto di biscotto Gentilini e salame Milano.
  • L’odore dell’aria fresca del mattino presto, quando devo uscire alle 6 e mezzo ma prima passo al bar per un caffè.
  • Leggere la sera tardi raggomitolata nel letto.
  • Ascoltare musica anni 80 (ma anche 70 e 60) a volume alto.
  • Fare il pisolino pomeridiano dalle 14,30 alle 15 (con cani accollati).
  • Ridere con gli sketch di Lillo e Greg.
  • Guardare le serie assurde. Ora sono in fissa con Snowpiercer e American Gods.
  • Andare al Teatro Sistina a vedere i musical (quando si potrà).
  • Passeggiare in montagna.
  • L’angolo tondo della pizza bianca.
  • I messaggi inaspettati e carini su whatsapp.
  • Cantare pezzetti di canzoni saltando da un brano ad un altro mentre riordino casa.

NON MI PIACE

  • I cacciatori e i bracconieri.
  • La trap, il rap, l’autotune, il reggaeton.
  • La carne e tutto ciò che è stato vivo e finisce nel piatto.
  • Misurarmi le cose dello scorso anno e vedere che mi stanno strette.
  • Farmi prendere dalla pigrizia.
  • Vedere la ricrescita grigia dei capelli.
  • Fare i bilanci. Ce n’avessi uno positivo, oh.
  • I dolci con la glassa di zucchero.
  • I posti affollati e la metropolitana.
  • Chi guida guardando il cellulare.
  • Il tartufo e l’odore che ha.
  • L’orrido sogno ricorrente in cui continuo a lavorare pur sapendo che sono stata licenziata, oppure vedo tutti gli altri che lavorano e mi guardano con imbarazzo perchè sanno che sono stata licenziata. Argh!