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Hotel California e dintorni

Quando uscì quest’album degli Eagles lo comprai con i miei risparmi. Avevo sentito questa band per radio, in programmi epici come “Supersonic” e “Per Voi Giovani”. Ero una ragazzina ma di musica già ne capivo un po’. E gli Eagles (insieme ad altre band memorabili) accompagnarono quegli anni turbolenti e confusi: si facevano manifestazioni, ci si faceva inseguire dai celerini, si parlava tanto, si faceva l’alba chiacchierando, ridendo, fumando, si ascoltavano le radio libere, prima fra tutte Radio Città Futura. Il singolo “Hotel California” è del 1977, anno in cui il segretario della CGIL Luciano Lama venne contestato con violenza all’Università da Autonomia Operaia e altri gruppi; anno in cui il movimento femminista si ampliò a tantissime donne compresa me conquistando una forza significativa; anno del Movimento del ’77, nel quale molti di noi erano coinvolti in maniera pacifica ma che comprendeva gente pronta a sparare con le P38; anno dei Clash, adorati da subito; anno della prima udienza del processo ai capi delle Brigate Rosse ma anche della prima serata allo studio 54 di New York, da cui arrivò una musica che ci fece riporre i dischi dei cantautori italiani impegnati per metterci a sentire (di nascosto, perchè pareva brutto) la disco dance. Nel ’77 era già un anno che stavo con Riccardo e ancora mi chiedevo come mai lui, figo bello ed educatissimo, figlio di un militare, si fosse innamorato di me, pasionaria maleducata figlia di un operaio comunista. Nel ’77 compivo 18 anni e feci una festicciola per gli amici. Ero giovane, presuntuosa, saccente, egoista, intollerante, ma gli amici vennero tutti. Chissà se sono cambiata. Chissà se la vita, a forza di colpi di maglio, ha ridotto gli spigoli, i lati taglienti, le asperità graffianti. Intanto gli Eagles li sento ancora. E pure i Clash.

video da youtube/ diritti indicati in https://www.youtube.com/watch?v=09839DpTctU

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Quando c’erano i Take That

Nei miei tanti anni di Lavoratrice Fedele del Giornaletto delle Ragazzine c’era un argomento obbligatorio da mettere nel timone (coso di cartoncino che rappresentava le pagine del giornale): le boyband. Se gli anni 80 erano stati il territorio di gruppi iconici come Duran Duran e Spandau Ballet, formati da ragazzi belli ma musicisti veri (discorso a parte per gli Wham, duo in cui il bello e musicista era solo uno, l’immenso George Michael), gli anni ’90 videro il boom delle boyband, dii solito formati da cinque ragazzini di cui solo uno (e talvolta nemmeno uno) s’intendeva di musica.

Impattai subito con i New Kids On The Block, cinque ragazzetti americani molto carini messi insieme nell’85 da un astuto produttore, come tutte le boyband che seguiranno.

In redazione dovemmo imparare in fretta a distinguere i componenti delle boyband uno dall’altro (impresa titanica in cui eccelleva la mia collega Betta). Facevamo articoli in continuazione, copertine, poster, adesivi del retro-copertina, gadget zeppi di foto e aneddoti. La boyband che conquistò più cover in tutta la storia del Giornaletto fu quella dei Take That.

I Take That erano il baby (Mark), il dancer (Howard), il dancer numero 2 (Jason) il simpatico (Robbie), il musicista (Gary). Anno d’arrivo 1990. Età media 19 anni, inglesi di Manchester, bellissimi, erano spesso seminudi nei loro video che miravano ad esaltare la loro sensualità destinata a scombinare i quieti sonni di molte tredicenni.

Quando vennero in Italia per un live, io e Betta andammo a vederli con il distacco (finto) delle giornaliste che volevano indagare sul fenomeno per teen agers del momento. Dopo tre minuti che la band aveva iniziato lo show, Betta e io eravamo in piedi a ballare, saltare e strillare come tredicenni. E senza nemmeno vergognarci!

Un’altra boyband che conquistò le teen italiane fu quella dei Backstreet Boys, americani, nati nel 1993. Gran belle canzoni e video con numeri di ballo perfetti si univano a delle faccine molto gradevoli, soprattutto quella di Nick. Esistono ancora, come gran parte delle boyband anni 90, e sono rimasti più o meno uguali.

Sulle nostre copertine, impaginate dalla grafica Gloria, apparvero anche gli inglesi East 17 (1991), gli irlandesi Boyzone (1993), gli americani NSYNC (1995), i Five, inglesi e gli Hanson, americani (entrambi 1997), i Westlife (1999, irlandesi) e i Blue, inglesi (2001). Nello stesso anno arrivarono anche i tedeschi Tokio Hotel.

Insomma, avevamo di che riempire le copertine, inframmezzando i “carini” delle band ad altri soggetti attraenti e stuzzicanti: Leonardo DiCaprio abitò stabilmente sulle nostre cover.come pure Brad Pitt e Tom Cruise, ma anche attori di telefilm teen come Beverly Hills 90210, Dawson’s Creek.

E poi il World Wide Web ingoiò giornaletti, divi pop, teen idol.

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Talvolta è meglio non chiedere perché

Photo by Helena Lopes on Pexels.com

Da bambina avevo già un carattere schifoso. Facevo storie perché non volevo dormire da sola, mi terrorizzava e attaccavo interminabili piagnistei. Mia madre, per sedarmi, mi cantava qualche canzoncina, sperando di farmi prendere sonno. Una delle canzoni che intonava era la “Ninna Nanna del Cavallino”, di Renato Rascel, che si capisce subito di cosa si tratta perchè lui lo dichiara all’inizio. Mia madre, scaltra come una volpe, evitava di ripetere quelle parole che Rascel pronuncia prima di cantare e attaccava subito con “Lungo i pascoli del ciel / Cavallino va / tutto d’oro è il suo mantel / Nell’oscurità…” Musica dolcissima, la voce di mia madre intonata e melodiosa: il risultato era che crollavo addormentata. Una sera, però, mi venne un dubbio: non riuscivo a capire cosa fossero quei pascoli del cielo e perchè il cavallino procedesse nell’oscurità, sebbene dotato di un mantello d’oro. “Mamma ma perché il cavallino corre in cielo?” ebbi la stoltezza di chiedere. “Ma perché è morto, no?” fu la sua dolce risposta.

Scoppiai a piangere come una vedova siciliana dietro al feretro di un congiunto. Mia madre mi aveva ipnotizzato tutte le sere con una canzone su un cavallo morto e io non l’avevo mai capito. Non so se fossi più incazzata perchè la genitrice mi aveva addormentato con un canto funebre o perché ero stata così ingenua da non capirlo.

Morale della storia? Certe volte è meglio astenersi dal chiedere perché.

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Qualcuno che mi manca davvero

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Ci sono alcune playlist su youtube che raccolgono canzoni italiane degli anni ’30 e ’40, come “Parlami d’amore Mariù”, “Mille lire al mese”, “Ma l’amore no”, “Voglio vivere così”, tutti brani che mia madre cantava. Era nata nel 1924, amava tutta la musica e adorava cantare, ma visto che spesso il suo umore non era dei migliori, aggiungeva il commento “Uccellino in gabbia, o canta per amor o canta per rabbia” sottolineando l’ultima parola.

Non penso quasi mai a lei. Ma quando ascolto questi brani, mi manca. Chissà che avrebbe detto della mia vita deragliata, dei miei percorsi senza uscita. Era una donna difficile, a volte distante. Aveva avuto una vita complicata ma non aveva mai perso la voglia di fare la monella. Andavamo la domenica mattina a Porta Portese a comprare le camicie usate per me, mi sembrava di averne pagate tre ma lei ne aveva cinque in busta. Si divertiva a infrangere qualche regola. Era attratta dal mistero, dal sovrannaturale. Era un’artista, dipingeva e scriveva bene. Era una sognatrice a cui la vita aveva cancellato i sogni.

Un anno prima che morisse la portai al mare, allo stabilimento Marechiaro di Ostia dove mio padre ci parcheggiava ogni estate, per due mesi (per fortuna). Si allungò sulla sdraio e poi si fece un bagno con calma, godendosi un’ondina dopo l’altra. Non si tuffava da almeno vent’anni. Aveva gli occhi che brillavano.

Anche se eri una dura, avevi un lato folle che mi divertiva. Sono più di trent’anni che non ci sei. Eppure oggi vorrei che tu fossi qui. Andremmo proprio a Ostia, dove ti sei sentita un po’ più libera e felice, a prenderci un gelato da Sisto o un krapfen al bar Paglia che li fa arrivare sul piccolo dirigibile. Ti ricordi quanto ci piacevano?

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Rimpianti, rimorsi o niente del tutto

“Ho cercato di rimanere incinta. È stato un percorso difficile, durato diversi anni. Ho provato anche con la Fivet. Fra l’altro, c’era questa narrativa che mi dipingeva come egoista, concentrata solo sulla carriera. Ora mi sento sollevata perché non c’è più l’incertezza. Non ci devo più pensare, è finita”, Jennifer Aniston, 53 anni, su “Allure”, novembre 2022.

La frase della star di “Friends” sembra detta da me. Non solo non ho avuto figli, ma non ho mai avuto quel desiderio istintivo, quel “battito animale”, quel richiamo profondo ad avere prole. E dire che ci ho provato. Non solo ad averne tecnicamente, ma a sentire anch’io quella spinta irrefrenabile che ha portato tutti gli esseri viventi ad avere una progenie. E’ l’istinto di sopravvivenza, la prosecuzione della specie, la volontà ancestrale che guida il mondo. E’ anche vero che le estinzioni di massa (una fra tutte, quella dei dinosauri) hanno interrotto bruscamente almeno 5 volte l’esistenza di esseri viventi sul nostro pianeta, da circa 450 milioni di fa in poi. E’ bastato un asteroide kamikaze e puff! quasi tutti gli esseri viventi sono scomparsi. Quindi tutto questo sforzo riproduttivo è andato un po’ a farsi benedire. Ma tant’è. Tignosi e testardi, i pochi sopravvissuti hanno continuato a moltiplicarsi e a evolversi per diventare più resistenti, più furbi, più resilienti. Se non avessero avuto l’impulso a riprodursi sarebbe finita lì.

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Invece tutte le mie amiche, di ogni formato fisico e caratura estetica, di ogni ceto sociale, di ogni livello e provenienza, hanno avuto figli. A un certo punto della loro vita hanno sentito il richiamo della natura che hanno seguito con gioia e sono diventate mamme. Chi con parti facili e immediati, chi con travagli epocali e dolori da rimanerci secche (ma tanto dopo non te li ricordi), hanno avuto bambini ai quali (quasi tutte) si sono dedicate con dedizione. Poi, dopo un po’, la loro unione col papà del piccolo è finita, ma che importa: intanto avevano il loro bimbetto e chi se ne frega del padre, che in fondo era pure un rompicoglioni.

Io, zero. Nessun afflato. Nessun impulso. Niente struggimento davanti a un bebè. Cuore di pietra. Mio marito si sdilinquisce di fronte ai bambini e io sono devastata dal senso di colpa di non esser riuscita a dargli un erede – e dal non avere mai avuto l’irrinunciabile chiamata alla riproduzione.

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Parlando con un’amica anche lei senza figli, abbiamo ragionato sulla fine del nostri ceppi familiari. Suo fratello non ha figli, mia sorella una figlia sola che non ha figli, e siamo tutti grandi. Quindi – zac! – siamo due nuclei destinati all’estinzione. “Ne rimarrà uno solo, e poi manco quello”. Ci siamo messe a ridere come due sceme, pensando a questo dio che diceva “Questi mi sono venuti male, li termino”. Io sono atea, lei non so, ma abbiamo la stessa malattia autoimmune. Spesso tendiamo a ridere della vita più che a drammatizzare (inutilmente). E a concludere le riflessioni più con un “chi se ne frega” che con un “che dispiacere!”.

Io rido sulla mia vita, ma se guardo indietro vedo nebbia e foschia, panorami indistinti da cui fuggono ricordi talmente piccoli che non hanno la forza di piantarsi nella memoria come testimonianze di quanto bella ed emozionante sia stata la mia esistenza. Forse è scivolato via tutto anche perchè non ho mai deciso davvero. Né un progetto, né un futuro. Né un figlio.

Soundtrack: RYX, Sweat, video da youtube

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Vorrei, vorrei

Vorrei tornare in quel mondo dove ai compleanni compravi la torta Charlotte, non c’erano i cellulari e te la cavavi con i telefoni a gettone. Se li trovavi.

Vorrei tornare alle estati al mare, a Ostia, dove mio padre ci parcheggiava per due mesi, io mia madre e mia sorella. Il gelato era lo Zatterino (in realtà Camillino, L. 50). Io ero una ragazzina cicciona ma serena, anche se le mie amichette avevano già il filarino e a me non mi guardava nessuno. Andavo in giro in bicicletta su e giù per i cavalcavia e non avevo paura di niente. La paura sarebbe arrivata dopo.

Vorrei tornare in quel mondo dove andavamo in giro su motorini dai nomi buffi, il Ciao, il Corsarino, il Garelli, il Boxer – che era il mio, un maledetto coso verde che si fermava sempre per cause inspiegabili. Imparai a guidare il motorino sui sassolini di Piazza Cavour, istruita da un amico che poi decise da solo della sua fine.

Quando si andava alle Feste dell’Unità dove suonavano i cantautori e si mangiavano panini unti e buonissimi. Tornare alle sigarette MS, che fumava mia madre e poi anch’io. Alle passeggiate lunghissime nei prati e nei boschi dietro casa con la mia amica Laura, senza paura che qualcuno ci aggredisse.

Tornare alla borsa di Tolfa, che esiste ancora ma costa uno sproposito. E anche agli zoccoli neri da femminista, scomodi ma iconici e quindi irrinunciabili. Tornare ai jeans Levi’s o Roy Rogers, che allora mi entravano.

Vorrei tornare alle uscite con mia madre che, dovunque andavamo, rubava qualcosa. Una volta in un ristorante del centro si portò via con nonchalance una tovaglia da 12 con tutti i tovaglioli. In un bar di Piazza Navona trafugò sorridendo 6 sottobicchieri di metallo. Nessuno la beccò mai.

Vorrei tornare alle domeniche mattina a Porta Portese, quando ci si trovava davvero di tutto e ci compravamo le camicie da uomo americane usate che ci parevano bellissime. Mia madre colpiva anche lì.

Vorrei tornare al Cineclub, un posto sotterraneo dove proiettavano film-pietre miliari che non potevi non vedere. Ci vidi “Fragole e Sangue”, “Piccolo Grande Uomo”, “Il Laureato”, “Butch Cassidy e Billy The Kid”, Woodstock”.

Vorrei tornare all’Università e a quella dimensione di sapienza, cultura, curiosità e cioccolata calda alla macchinetta al secondo piano. A quei professori scombinati che mi affascinavano con le loro lezioni. Mi ero affezionata a loro, e forse loro a me. Almeno uno.

Vorrei tornare a suonare la chitarra con gli amici, sgolarsi nel ritornello di “Contessa”, cantare le lunghissime canzoni di Guccini che, non si sa come, sapevamo tutte a memoria. Vorrei tornare a quel momento magico in cui suonai “Right between the eyes” per un amico che voleva conquistare un deliziosa ragazza, Cosetta, e con quella dolce canzone ci riuscì.

Vorrei tornare a sedermi la sera intorno ad un fuoco, in silenzio, fissando le fiamme agili e leggere, con un’inspiegabile malinconia nel cuore.

Vorrei tornare a passare le notti a chiacchierare e a fumare, a divertirmi al concerto di Edoardo Bennato, a gustarmi la pizza di Baffetto a Via del Governo Vecchio, a sentire i Led Zeppelin, i Genesis, Simon & Gafunkel. E “Supersonic” alla radio.

Vorrei tornare a camminare con lo zaino pesante sulle spalle e avere la sensazione di essere speciale.

Vorrei tornare a emozionarmi, a indignarmi, a scendere in piazza. A credere in un ideale. Vorrei tornare a sentire quella forza interiore che mi scuoteva e mi faceva muovere, ma anche fare cazzate colossali, con la costante che non ho mi imparato dai miei errori.

“Vorrei poter tornare indietro. Vorrei avere ancora 18 anni e la vita davanti tutta intera”. Marisa (Sabrina Ferilli) in “Ferie D’Agosto” di Paolo Virzì, 1995

La scena dei desideri durante la notte delle stelle cadenti

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Quello che mi manca

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Se c’è una cosa che mi manca tantissimo del lavoro di prima è stare insieme con altre persone. Salutarsi al mattino, prendere un caffè alla macchinetta, ridere di cose sceme, discutere e litigare su cose importanti (e anche stupide, in alcuni casi). Mi manca proprio quel momento in cui giravo lo sguardo e vedevo la collega vicino a me sulla destra, poi quella in fondo, e ancora l’altra davanti. Era rassicurante, confortante, piacevole. Anche se, avendo io un brutto carattere (e chissà se allora qualche macchiolina non alterasse anche quello, oltre la vista), non rendevo loro la vita facile. Però il doloroso senso di assenza testimonia quanto fosse forte il legame che provavo. Non so se fosse vero affetto o abitudine, ma che importa?

MI manca lavorare a un progetto comune e condividerne la creatività, la fretta, le arrabbiature. Mi manca il contatto anche fisico con le persone con cui lavoravo, l’abbraccio, il bacio, la pacca sulla spalla. Il buongiorno al mattino. Le feste di compleanno fatte quasi in segreto con cose buone da mangiare portate di soppiatto. E le loro voci. Pensavo durasse tanto. Invece ho perso tutti in un attimo.

Lavorare da soli non è bello. Lo faccio, ma non mi piace. Ora che ho qualcosa di nuovo da fare, provo a conoscere in qualche modo le persone che lo fanno con me, ma da lontanissimo. Le trovo sui social, ci scambiamo cuoricini. Colleghe mai viste ma in qualche modo già vicine. E ancora mi batte il cuore.

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Di nuovo a teatro, con JCS

Il gran finale di “Jesus Christ Superstar” al Sistina

Ieri sera siamo tornati a teatro dopo due anni di serate “divano e tv”, in cui non abbiamo frequentato posti affollati per evitare il contagio che poi ci ha beccati lo stesso. Siamo andati a vedere Jesus Christ Superstar, storica opera rock che, grazie al film omonimo tratto dal musical originale, ha formato la nostra adolescenza. E’ stato bellissimo entrare al Teatro Sistina, tempio del musical italiano da decenni, e andarsi a sistemare nelle poltroncine rosse sempre uguali, non troppo comode ma ci piacciono così. Sul palco lo stesso Ted Neeley di sempre: ha 78 anni ma canta (e si muove) con il carisma e la forza di quando ne aveva 30 e interpretava Gesù nella pellicola di Norman Jewison del 1973.

Noi nelle poltronissime (una volta che si va a teatro si prendono i posti migliori)

Il musical è grandioso, i protagonisti fenomenali (tra cui Frankie Hi Nrg che interpreta Erode), l’atmosfera è elettrizzante e familiare: ci si sente parte della grande comunità di quelli che hanno visto il film almeno venti volte e lo sanno a memoria. Il pubblico è quasi tutto di un’età riconducibile al fatto che Jesus Christ Superstar sia stato visto per la prima volta intorno ai 20 anni, quando uscì nel cinema. Noi abbiamo cantato per quasi tutta la rappresentazione. Ci siamo divertiti, emozionati, commossi anche per i ripetuti omaggi all’Ucraina.

Però, da atea, voglio fare una considerazione sulla vicenda di Gesù. La domenica prima tutti a festeggiarlo urlando “Osanna!”, pochi giorni dopo tutti a odiarlo urlando “Crocifiggetelo!”. La gente è così. Oggi ti ama, domani ti vuole vedere morto.

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Non è mai troppo tardi per vivere un’infanzia felice

Con questa frase il mitico Carlo Massarini chiudeva il suo “Mister Fantasy”. Nel rispetto di questa filosofia che ho fatto mia da anni, ho comprato una scatola di Lego. Era tanto tempo che volevo farlo, e l’occasione è arrivata quando IBS ha proposto alcune confezioni in offerta. Ho preso il Lego della serie tv “Friends” (una delle mie preferite), che riproduce il “Central Perk” dove Rachel, Monica, Chandler, Phoebe, Ross e Joey bevono caffè e chiacchierano. Ci siamo messi a costruire la scena io e Riccardo, lui montava i pezzi e io li dividevo per colore. Sono state ore bellissime di relax mentale, condivisione e divertimento.

Temo che comprerò qualche altra scatola di Lego a tema. Certo, non è un passatempo creativo, tu devi solo montare gli elementi seguendo attentamente le istruzioni, però è bello vedere come cresce la costruzione man mano che ti districhi da quel mare di pezzettini colorati. Da piccola avevo delle costruzioni bellissime, erano solo mattoncini rossi di quattro misure. Ci facevo palazzi, villette, rifugi e casette. Il Lego di oggi ti guida e ti impone di assemblare qualcosa che hanno pensato i suoi ingegneri. Ma va bene lo stesso per vivere un’infanzia felice.

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Chi si salverà?

L’Articolo 11 della Costituzione dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Però è stato appena approvato l’aumento delle spese militari dagli attuali 68 milioni di euro al giorno a 104 milioni al giorno. Essere pacifisti è un’utopia? Sperare in un mondo senza guerre è un’amena favoletta? La guerra è talmente radicata nel cervello umano che, da sempre e ovunque, è il modo con cui le popolazioni hanno tentato di dominarsi a vicenda. Per i soldi, per il potere, per l’ambizione, per il territorio, per la religione. Di guerra dovremo finire, in un olocausto totale che finalmente ci spazzerà tutti via dal Pianeta. Risorgeranno solo gli scarafaggi che si erano nascosti in profondità, lontani dalle ricadute radioattive, corazzati e organizzati. Ed erediteranno la Terra, meritandosela.

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Arresti domiciliari

Dall’inizio della pandemia sono stata super-ligia alle regole. Mascherina FFP2 fin dall’inizio, incollata al naso non appena uscivo di casa. Lavaggio delle mani ossessivo, che infatti ormai ho due tozzetti rugosi e pallidi alla fine delle braccia, disinfettante da sala operatoria, solitudine non solo dei numeri primi ma anche di tutti gli altri. Bene. Dopo oltre due anni di guardia altissima, evitando amici, locali, negozi, vicinanze sospette, ho preso il Covid.

Io ho una malattia autoimmune quindi non è che un attacco di un virus furbo e malvagio sia proprio quello che rende felice il mio sistema immunitario. Il covid ha avuto un esordio pirotecnico: febbre a 39, vie respiratorie intasate che manco il raccordo anulare prima di Natale, spossatezza al limite del coma. E tutti a dirmi sei fortunata ad aver fatto i 3 vaccini sennò a quest’ora eri morta o almeno cosparsa di tubi in terapia intensiva. L’idea dei tubi in effetti è piuttosto terrorizzante.

Così io e il socio ci siamo chiusi in casa stile arresti domiciliari, con le bassotte perplesse e poi infastidite dal fatto che non si andava a spasso. I bisogni fateli sui tappetini, ragazze! Mia sorella ci ha lasciato ogni giorno pane e dolci fuori della porta. Ne ho approfittato per dormire tantissimo, guardare la signora Meisel su Prime Video, scrivere e farmi girare le scatole oltremisura, visto che tutte le mie ridicole paranoie non sono servite (quasi) a niente.

Ancora ho qualche sintomo e devo attestare la negativizzazione. In effetti mi sento ancora positiva, ovviamente non nel senso di ottimismo e fiducia nel futuro. Tutta questa storia mi ha dato una grande lezione di vita: se una cosa deve succedere, succede. Ma meglio se sei vaccinata.

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Il mio primo ragazz(in)o

Ve lo ricordate il vostro primo amore? Quanti anni avevate? Io avevo quasi 14 anni e lui qualche mese di più. Due mocciosi saputelli che si atteggiavano a grandi ma non ci capivano niente: col senno di poi, quello che mi ritorna in mente fa ridere. Ma fa anche tenerezza.

Tanto tempo fa, quando ancora non c’erano i cellulari, uscivi di casa e nessuno sapeva più niente di te né poteva rintracciarti. Io invece non uscivo mai e mia madre, per buttarmi fuori di casa, mi iscrisse agli scout di quartiere. Voleva vedere se c’era vita in me o ero solo un fagotto buttato sul letto intento ad ascoltare alla radio “Supersonic Dischi a Mach 2” e “Per voi giovani”.

Accadde però che gli scout di zona si divisero e una parte confluì in un reparto storico e prestigioso, il Roma 9. Io seguii i “confluenti” – per la gioia di mia madre che finalmente mi vide allontanarmi da casa. La prima sede che frequentai fu in Piazza di Spagna, nei locali sotterranei dell’esclusivo Collegio San Giuseppe de Merode; poi ci spostammo in Via Pompeo Magno, zona Prati, nei locali ancora più sotterranei (e tortuosi) della chiesa di San Gioacchino (dove, ironia della sorte, si erano sposati i miei nel 1943) che dividevamo con l’allora fondamentale Cineclub Tevere.

Nel reparto Roma 9, tra ragazzini figli di ricchi che frequentavano l’elitaria Villa Flaminia (scuola privata gestita da preti) piombammo, dalla periferia di Roma Nord, io e la mia amica Laura, figlie di proletari. Mio padre era un ex operaio elettricista promosso a impiegato in seguito a un terribile incidente sul lavoro di cui fu vittima, il padre di Laura faceva il barista. Ci trovammo in mezzo a questi figli di papà molto carini, molto educati, molto forniti di ville al Circeo e sterminati appartamenti con pianoforti e cameriere fisse. E il mio giovane cuore prese a battere per uno di questi ragazzi(ni).

Quant’era carino il mio primo lui! Alto alto, magro magro, capelli ricci, occhi scurissimi, era simpatico e un po’ svitato. Aveva un buon odore: lo so che gli adolescenti più che un odore emanano un sentore di capra di montagna, ma tant’è. Ci siamo messi insieme senza sapere cosa volesse dire.

Ho ricordi piccoli e belli. I primi baci durante un campo scout, così tanti che il giorno dopo avevo le labbra indolenzite. Mi sentivo molto vissuta (e un po’ ridicola). La prima volta che dormimmo vicini eravamo in tenda (ma con altre dieci persone) saldamente chiusi ognuno nel proprio sacco a pelo perchè si gelava. Ci toccavamo solo con i nasi. La mattina seguente scoprimmo che aveva nevicato e la tenda era sommersa dalla neve.

Facemmo insieme anche un campo di volontariato, in una casa di riposo per anziani. Di giorno svolgevamo i nostri compiti con i malandati ospiti che ci avrebbero volentieri tolto di mezzo a colpi di dentiere – stupidi ragazzini romani fastidiosi come moschini della frutta. Di notte i ragazzi venivano a bussare alle stanze delle ragazze. Non si faceva nulla oltre che chiacchiere, baci e carezze, ma ci sembrava di essere esperti amatori.

Con lui mi ricordo uno scambio di battute che già mostrava la mia estrema simpatia. Parlavamo del brano cantato da Herbert Pagani, “Albergo a ore”, un pezzo straziante su due ventenni che passano la loro prima (e ultima) notte insieme in una stanza d’albergo, dove si toglieranno la vita. “Io lavoro al bar di un albergo a ore/ porto su il caffè a chi fa l’amore…”, citai io. Lui sorridendo mi disse: “A noi però non ce l’hanno portato il caffè…”. E io, che già da allora non capivo le battute ironiche, risposi acida: “Ma noi non abbiamo fatto proprio niente”, a sottolineare la pochezza delle effusioni.

La mia prima love story finì in modo indolore, perchè due quattordicenni alla fine sono solo due ragazzini che devono, giustamente, assaggiare qua e là la vita per trovare, da grandi, la loro strada nel mondo. Lui si invaghì di una tipa carina e chic che entrò nel gruppo insieme ad altre amiche tutte provenienti dalla scuola privata più esclusiva di Roma, l’Istituto Nazareth, frequentata solo dalle rampolle della Roma-bene.

Io andavo al liceo Guido Castelnuovo. Dove il più tranquillo era di Lotta Continua.