Ho sempre amato la musica: da ragazzina restavo incollata alla radio per ascoltare Per Voi Giovani, SuperSonic-Dischi a Mac 2, PopOff, ma anche Hit Parade di Lelio Luttazzi. La mia bibbia era Ciao 2001. Mentre le mie coetanee sospiravano con Questo piccolo grande amore di Baglioni, io a 12 anni ascoltavo Stairway to heaven dei Led Zeppelin. Non ero tanto normale. Avevo tappezzato la mia stanza di foto di Peter Gabriel e David Bowie. Per i Genesis ho avuto subito un amore smisurato, per Ziggy Stardust una vera passione. Amavo gli America, gli Eagles, Simon & Garfunkel ma sopratutto Crosby, Stills, Nash e (tantissimo) Young. Suonavo le loro canzoni alla chitarra, con risultati discutibili.
Verso i vent’anni mi folgorai per una band inglese che scoprii alla fine del ’79, i Dire Straits. Persi la testa per la loro musica e per il loro frontman, Mark Knopfler, chitarrista sopraffino dal tocco morbido e la voce seducente. Comprai i loro album e li consumai sul giradischi, imparai le canzoni a memoria, cercai materiale e interviste su di loro.
Un giorno il mio amico Simone, che faceva la guardia giurata alla Rai, mi spifferò che i Dire Straits erano attesi come ospiti a Disco Ring e che sarebbero passati dall’ingresso di Via Teulada. Mi disse di andare, che avrebbe trovato il modo di farmeli incontrare. Ero emozionatissima, mi piazzai all’ingresso della Rai insieme a un mucchio di ragazze impazienti ed eccitate. Prima dei Dire Straits, arrivò un’altra band a me sconosciuta: erano dei ragazzi molto belli, stilosi, altissimi (tranne uno). Erano i Duran Duran ma, dato che io ancora non li conoscevo, li feci passare senza troppo interesse.
Poi arrivarono i Dire Straits. Io vidi solo lui, Mark Knopfler, di cui ero innamorata persa. Altissimo, elegante, cortese, si fece largo nella calca con il carisma di un messia. Io lo avvicinai, gli dissi “Mr Knoplfer, you are the best” e gli strinsi la mano. Mentre tutte le ragazze intorno si facevano fare un autografo, io rimasi pietrificata a fissare il “chitarrista del mio cuor” che entrava negli studi lasciando dietro di sé una scia di piccole note scintillanti. O almeno così mi sembrò.
Lo vidi in concerto due anni più tardi, all’Ippodromo delle Capannelle, in un live epocale di cui ho un ricordo vivido: mi parve di cadere in una specie di trance mistica alla prima canzone, “Once upon a time in the west”, dalla quale mi ripresi solo dopo le ultime note del pezzo ci chiusura, “Local Hero”. Per tutto il live ero stata a pochi metri da Mark, sotto il palco, a fissarlo adorante, mentre lui accarezzava la sua Fender rossa e bianca. Sono sicura che quell’8 luglio 1983 lui abbia suonato solo per me.
Oggi è un anziano signore di 72 anni che suona ancora come un giovincello.
La conclusionale è una fitta al cuore, specie perché era così bello da giovane. E invece il tempo vola via…
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