Quand’ero piccola, qualche giorno prima di Natale mio padre mi portava dove lavorava perchè c’era Babbo Natale (cioè un tizio vestito di rosso con barba bianca e cappello col pon pon) che consegnava ai figli dei dipendenti i “pacchi” aziendali contenenti di solito un panettone (che a casa mia non piaceva a nessuno) e altri dolci festivi. Papà lavorava alla Squibb, potente industria farmaceutica. Io odiavo quel Babbo Natale perché mi terrorizzava.
Quindi, quando dovevo fare quell’accidenti di foto in braccio a lui armavo un casino che la metà bastava. Mio padre, che non aveva un’indole conciliante e comprensiva, s’incazzava per i miei capricci che gli facevano fare una brutta figura davanti ai colleghi, e mi fulminava con lo sguardo, per poi sibilare minacce tra i denti e nominare qualche divinità, ma non per ingraziarsela. Poi ritiravamo il pacco offerto dall’azienda e tornavamo a casa in silenzio.
Anni dopo, il Natale assunse tutto un altro aspetto: festoso, allegro e profumato. Eravamo molto legati ai nostri dirimpettai, una famiglia mix formata da Valerio, romano de Roma, nato a Borgo Pio, quartiere adiacente a San Pietro, professione barman, e Ines, friulana doc, nata a Pordenone, casalinga ex ristoratrice nel locale della sua famiglia su al nord. Avevano due figli: Laura, mia coetanea, e Luca, più piccolo. Laura e io siamo cresciute insieme, ma io ero più monella mentre lei più seria e responsabile. Anche perchè, quando i suoi presero un bar dove iniziarono a lavorare entrambi dall’alba alla sera inoltrata, lei dovette crescersi da sola il fratellino e questo la rese adulta prima del tempo.
Insomma, il 25 dicembre ci riunivamo tutti insieme, noi (io, mia sorella e i genitori) a casa dei nostri vicini o viceversa. Mio padre era incazzato già dal giorno prima, perché detestava le feste e le riunioni familiari. Ma a nessuno importava: eravamo tutti elettrizzati all’idea di condividere un pranzo smisurato, tra risate, battute e vino buono. Più spesso, andavamo noi dai dirimpettai che, pur se stremati da una settimana di lavoro intenso al bar, incredibilmente si rilassavano cucinando per tutti. Era bello stare con i vicini, in un’atmosfera serena e un po’ brilla, tanto che a mio padre passava presto l’incazzatura e si univa ai brindisi e alle risate. Piatti immancabili del menu dei vicini erano le fettuccine al ragù e l’arista di maiale al latte con piccoli funghi interi cotti al forno, più altre seimila pietanze che apparivano qua e là durante il pasto. Nel tempo, si aggiunsero alla tavolata Benedetto, il compagno di Laura, e Riccardo, il mio.
Seguivano poi mandarini e frutta secca, e quindi una quantità inverosimile di dolci: i vicini, avendo un bar, portavano al pranzo di Natale le novità del momento. Per primi, forse, abbiamo assaggiato i torroncini Condorelli e il panettone Le Tre Marie, marchi allora sconosciuti a Roma. E poi, l’apoteosi della leccornia natalizia era il torrone Feletti, fatto a Pont Saint Martin, in Valle d’Aosta, con cioccolato e nocciole di una bontà assoluta. Valerio poi sfoderava l’arma finale: una serie di liquori speciali che, da esperto barman, conosceva solo lui, tra cui primeggiavano le grappe artigianali. “Questo lo dovete assaggiare!” diceva, versando nei bicchierini il distillato da provare. Il tasso alcoolico era elevato, ma nessuno stava male. Al massimo ridevamo un po’ di più. Poi Ines caricava varie macchinette del caffè che serviva in graziose piccole tazzine del servizio buono.
Poi si passava ai giochi delle feste. A mercante in fiera, Valerio era il Mercante e conduceva il gioco in maniera spassosa e avvincente. Forse era proprio quello il momento più divertente della festa. A sette e mezzo vinceva quasi sempre Ines, che chiedeva al Banco la sua carta di gioco coperta, scoprendo quella che aveva. “Cinquanta lire e carta coperta!” diceva, e ci potevi scommettere che sarebbe stata la Matta, ovvero il Re di Denari. Un altro giro di caffè e di torrone Feletti accompagnava quel paio d’ore di giochi natalizi.
Mio padre è morto tanti anni fa, per una cardiopatia complicata da una Epatite C mai rilevata. Lo stroncò un’ascite inarrestabile. Anche mia madre è morta per Epatite C che le ha compromesso fegato e pancreas e se n’è andata per coma diabetico: una varice esofagea le si è aperta e l’ha soffocata. Probabilmente entrambi avevano contratto la C in ospedale, durante degli interventi. Valerio è morto da diverso tempo. Un tumore allo stomaco se l’è portato via in due anni, fino a ridurlo al lumicino. Ines ha perso la memoria. Esce solo con la badante perchè potrebbe smarrirsi anche sotto casa. Però sorride sempre. Benedetto è morto un anno fa, per un cancro alla tiroide al quale ha sempre sorriso, per non dargliela vinta nemmeno all’ultimo respiro.
Non c’è più nemmeno il torrone Feletti: la ditta è fallita e lo stabilimento con i macchinari è stato rilevato da una holding olandese.